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Cinismo e valori |
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Corrado Stajano, Corriere della Sera, 09.09.2010 |
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Giorgio Ambrosoli non è stato dimenticato. Trentun anni dopo il suo assassinio nel centro di Milano, vicino alla basilica di San Vittore, le ragioni della memoria di quel che accadde — un uomo che si fa uccidere nel nome dell’onestà — sono rimaste intatte. |
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Giorgio Ambrosoli non è stato dimenticato. Trentun anni dopo il suo assassinio nel centro di Milano, vicino alla basilica di San Vittore, le ragioni della memoria di quel che accadde — un uomo che si fa uccidere nel nome dell’onestà — sono rimaste intatte. Una contraddizione in un tempo come il nostro dove la corruzione diffusa impedisce lo sviluppo, dove la violenza dei poteri criminali è pressante, dove la politica ha perso spesso il rispetto di se stessa. Ma questo panorama intristito del paese non ha impedito che negli anni strade, piazze, scuole, biblioteche, aule universitarie siano state dedicate a Giorgio Ambrosoli. Il suo nome è diventato infatti un modello morale e civile. Stasera alle 23,50 su Raidue, la puntata della «Storia siamo noi» di Giovanni Minoli è dedicata all’avvocato di Milano ucciso l’11 luglio 1979 da un killer venuto dagli Stati Uniti su mandato del finanziere Michele Sindona. Il documentario, «Qualunque cosa succeda. Storia di Giorgio Ambrosoli» di Alberto Puoti, prende il titolo dal libro di Umberto Ambrosoli, il figlio dell’avvocato, uscito nel giugno dello scorso anno, che ripercorre, con dolorosa sobrietà, la vita e la morte del padre. È un programma serrato, questo della TV, ricco di emozioni, assai bello, se l’aggettivo si addice a una materia così straziante. I personaggi, Ambrosoli soprattutto, e con lui la moglie Annalori, il figlio Umberto, gli amici, i nemici, ministri, generali, banchieri, il presidente del Consiglio, si muovono su sfondi color del piombo - la giungla delle banche, delle società, delle finanziarie, lo Ior vaticano - tra Milano, Roma, New York, la Svizzera e Ghiffa, sul lago Maggiore, dove l’avvocato possedeva una casa, contrappunto sereno alla cupa realtà. Che cosa rappresenta oggi la vicenda Ambrosoli, qual è la novità dopo tanto scandagliare, che insegnamento se ne può trarre? C’è nel documentario una risposta di Giulio Andreotti a una domanda di Alberto Puoti, che fa sobbalzare chi cinico non è, disabituato alle pillole presidenziali di ambigua saggezza. «Perché Ambrosoli è stato ucciso?» domanda il giornalista. «Questo è difficile, non voglio sostituirmi alla polizia e ai giudici, certo è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando». Soltanto un caso di ordinaria imprudenza, quindi, un episodio da film all’italiana. Lo statista, il sette volte presidente del Consiglio, non fu prosciolto, al processo davanti alla Corte d’appello di Palermo nel 2003: il reato di associazione per delinquere fino alla primavera del 1980 fu semplicemente estinto per prescrizione, giudizio confermato dalla sentenza definitiva di legittimità della Corte di Cassazione, il 15 ottobre 2004. Erano proprio quelli gli anni dell’affaire Ambrosoli. Andreotti, allora presidente del Consiglio, ne parla sereno, e pensare che doveva averne multiformi saperi. Anche oggi non smentisce la sua empatia per il bancarottiere definito in passato «il salvatore della lira»: «Dette — conferma — un allarme per quelli che erano i pericoli del sistema finanziario internazionale che nell'immediato pochi compresero. Ma poi si è visto quanto fosse tempestivo». È benevolo Andreotti, seguita a fornire a Sindona le sue ambite referenze: «Il fatto che si occupasse sul piano internazionale dimostrava una competenza economico finanziaria che gli dava in mano una carta che altri non avevano. Se non c'erano motivi di ostilità, non si poteva che parlarne bene. Io cercavo di vedere con obiettività, non sono mai stato sindoniano, non ho mai creduto che fosse il diavolo in persona». Com’è diverso il ritratto di Carlo Azeglio Ciampi, nell'anima e nello stile: «Ambrosoli era il cittadino italiano al servizio dello Stato che fa con normalità e semplicità il suo compito e il suo dovere». E come piena di nostalgia e di rispetto la memoria di John J. Kenney, il procuratore di New York, che da Ambrosoli ebbe un prezioso aiuto, fonti, prove, documenti, durante l'inchiesta sulla Franklin National Bank, la banca americana di Sindona che segnò l'inizio della sua fine. L'avvocato di Milano non riusciva a nascondere il suo stupore, lo si capisce leggendo i suoi diari e le sue agendine, di fronte alle rivelazioni continue dei tradimenti, delle trame, delle connivenze che avevano per protagonisti uomini di alto rango dello Stato. Avrebbero dovuto essere naturalmente dalla sua parte, pubblico ufficiale con il compito di sanare una situazione degenerata, protetta dal sistema politico di governo, e invece erano nemici che intralciavano in tutti i possibili modi quel che tentava di fare in nome della comunità condannata, per il malfare del banchiere corrotto, a pagare l’equivalente di 800 milioni di euro di oggi. Ambrosoli era stato sottovalutato da Sindona e dal suo entourage. E’ invece un giovane avvocato intelligente, non soltanto onesto. Appena entra nella banca di Sindona capisce subito com’è potente e inquinato quel mondo protetto dalla Chiesa romana, dalla massoneria, dalla DC. Con la mafia che fa anche da mano armata. Si saprà soltanto dopo il 1981, quando furono scoperte le carte di Gelli a Castiglion Fibocchi, che era stata la P2 a guidare tutte le manovre per salvare Sindona. Giorgio Ambrosoli è solo, o quasi. Ugo La Malfa è l’unico uomo politico che si prende a cuore quella verminosa storia nazionale e gli dà aiuto come può. Pochi amici gli fanno da consulenti, il maresciallo della Guardia di finanza Silvio Novembre gli fa persino da guardia del corpo, nell’assenza di ogni protezione da parte dello Stato, nonostante le minacce mortali. E sono poi, con lui, uomini della Banca d'Italia, Paolo Baffi, il governatore, e Mario Sarcinelli, che finisce persino in prigione. È ben cosciente, Ambrosoli, di quel che fa — altro che «andarsela a cercare». Basta leggere la lettera scritta alla moglie il 25 febbraio 1975, solo un anno dopo la sua nomina. Un testamento: «Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto (...). Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa». |
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