Come lavorano i geni? Impossibile rispondere. Potrebbe aiutare un tuffo nelle biografie dei maggiori intelletti umani. Come quella del fisico britannico Michael Faraday, morto 150 anni fa. O dello studioso a lui molto vicino James Clerk Maxwell, nome degno di figurare tra Newton e Einstein, eppure molto meno noto al grande pubblico. Lo scienziato scozzese, lavorando a partire dalle intuizioni di Faraday, è ritenuto il padre della teoria dell’elettromagnetismo. Esattamente 160 anni fa, il 30 maggio 1857, a soli 26 anni, Maxwell aveva vinto il prestigioso Adams Prize con un saggio sugli anelli di Saturno. Nello stesso periodo aveva completato l’articolo «On Faraday’s Lines of Force» e aveva spedito a Faraday una lettera per discutere sulla sua teoria. Dieci giorni prima di ricevere il premio aveva scritto al matematico Cecil James Monro, antico compagno di studi al Trinity College, rivelandogli di aver iniziato a «sgobbare» su una «teoria vorticosa» dei fenomeni elettrici e magnetici ancora «molto grezza» ma piuttosto promettente. Teoria che aveva infine esposto l’8 dicembre del 1864 alla Royal Society, cambiando il corso della scienza. Di questa rivoluzione parliamo col fisico teorico specializzato in comunicazione della scienza alla Sissa di Trieste, Fabio Toscano, che proprio in questi giorni sta presentando il suo ultimo saggio «Una forza della natura», edito da Sironi, dedicato alla storia dell’elettromagnetismo. Preparatevi: è un viaggio nei cervelli di un gruppo di autentici geni. Fabio Toscano, come spiegherebbe l’elettromagnetismo a un bambino? «Gli farei vedere due calamite, mostrandogli che si possono attirare e che si possono respingere. E poi gli farei notare che attrazione e repulsione avvengono senza che si tocchino fra di loro. Quindi spiegherei che le calamite si attirano o si respingono grazie ad una forza invisibile: non la vediamo ma c’è. E gli direi che la luce di casa, gli apparecchi elettrici che vede – la tele, la radio e il computer – funzionano perché dentro i fili scorre una cosa che si chiama corrente elettrica. Una cosa che può essere anche pericolosa perché se tocchi i fili prendi la scossa. Infine gli direi che per tanti anni nel passato si era pensato che queste due cose – il magnetismo e l’elettricità – fossero separate, mentre invece sono due aspetti di una singola forza che si può vedere ogni giorno nella luce che arriva dal sole, per esempio». Torniamo adulti. Prima della scoperta dell’elettromagnetismo cosa pensavano gli scienziati? «La scoperta dell’elettromagnetismo da parte di Ørsted avviene in un giorno di aprile del 1820. Prima di allora la stragrande maggioranza degli scienziati pensava che elettricità e magnetismo fossero due fenomeni completamente distinti, che uno non potesse condizionare l’altro». Come mai? «Perché all’epoca si pensava che elettricità e magnetismo fossero dovuti a speciali fluidi: quello elettrico e quello magnetico. L’idea era che i fluidi elettrici potessero interagire solo fra di loro, come i fluidi magnetici. Poi, però, una netta minoranza di scienziati riteneva che invece fossero fenomeni in un qualche modo legati. Tanto legati da essere in realtà aspetti distinti di una singola forza, appunto». Come sono arrivati a questa idea «ribelle » rispetto alla gran parte del mondo scientifico? «In realtà questa idea non era originata tanto da indizi fisici. Prima della scoperta di Ørsted non era mai stato osservato un qualche fenomeno che facesse pensare seriamente a questo legame. Ma era presupposto da posizioni filosofiche: l’idea che le forze della natura dovessero essere legate fra di loro. Questo presupposto, tipico dei filosofi romantici e in particolare di Friedrich Schelling, si basava però su altri fatti fisici. Erano già stati trovati, per esempio, dei legami tra l’elettricità e le forze chimiche. L’idea era che questi legami potessero essere estesi a tutte le altre forze». La scoperta dell’elettromagnetismo è del 1820, ma la formulazione della teoria arriva solo nel 1864.Come mai? «Passa molto tempo, sì. La scoperta di Ørsted è che posizionando un filo percorso da corrente elettrica molto vicino a un ago magnetico come quello di una bussola l’ago ruota. Non ci sono più dubbi sul legame tra elettricità e magnetismo: una corrente elettrica fa ruotare un ago, quindi genera una forza magnetica. Una scoperta epocale, ma è solo una tappa del cammino». Cosa succede dopo? «Passano pochissimi mesi e arrivano le importantissime scoperte di Ampère, grande matematico, chimico, fisico e filosofo francese che nel settembre dello stesso 1820 scopre per la prima volta che due fili percorsi da corrente si attirano o si respingono come fossero due calamite. Siccome pochi giorni prima aveva trovato che anche un filo percorso da corrente e una calamita si potevano attirare o respingere a vicenda, scopre un legame ancora più profondo tra elettricità e magnetismo». E dopo Ampère? «Nel 1831 il chimico e fisico inglese Faraday scopre il rovescio della medaglia di quello che aveva scoperto Ørsted nel 1820 e cioè che non solo le forze elettriche possono generare forze magnetiche, ma il magnetismo può generare elettricità. È la cosiddetta induzione elettromagnetica. Faraday trova che il legame tra elettricità e magnetismo è a due vie. A quel punto lo stesso Faraday, che era un grandissimo sperimentatore e un geniale interprete dei fenomeni da lui osservati, inizia a impostare una teoria solo qualitativa, non matematica perché la matematica gli era ignota. E inventa il concetto, oggi fondamentale in fisica, di “campo”». Come quello dei telefonini? «Sì. Quante volte si dice: qui non c’è campo, il telefono non prende. La parola campo è stata introdotta proprio da Faraday per designare questa essenza che si trova nello spazio, un’essenza invisibile ma reale che viene perturbata dai corpi elettrici e magnetici e risponde a queste perturbazioni agendo sugli stessi corpi sotto forma di forze. L’elaborazione teorica di Faraday, tuttavia, non essendo matematica non trova grande seguito. Del resto, all’epoca le sue idee erano del tutto eterodosse». Poi però arriva Maxwell. «Esatto, un grande fisico scozzese che a differenza di Faraday è matematico di squisita fattura. Con molto coraggio accetta le idee di Faraday e le traduce in una rigorosa forma matematica. In questo modo chiude le ricerche ottocentesche sull’elettromagnetismo. L’8 dicembre 1864 si reca alla Royal Society di Londra e presenta le sue famose equazioni e leggi, note come leggi di Maxwell, che spiegano tutti i fenomeni classici e macroscopici dell’elettricità e del magnetismo in un raffinatissimo ed elegante sistema di equazioni matematiche». E il cerchio si chiude. «Sì, ma con una ciliegina sulla torta. Tra il 1886 e il 1888 il grande fisico tedesco Heinrich Rudolf Hertz scopre ciò che le equazioni di Maxwell avevano predetto, cioè l’esistenza di onde nello spazio di elettricità e magnetismo: le famose onde elettromagnetiche di cui la luce che noi vediamo è una parte. Onde che Maxwell aveva previsto sulla base delle proprie equazioni. Aveva calcolato anche la velocità di queste onde scoprendo che doveva essere di circa 300 mila chilometri al secondo, che è la velocità della luce, nota già all’epoca. Possiamo solo immaginare lo stupore di Maxwell quando ricava dai suoi calcoli questo valore. Una coincidenza del genere non poteva essere casuale. Perciò, oltre ad unificare elettricità e magnetismo, scopre che la luce è un insieme di onde elettromagnetiche. In un colpo solo unifica elettricità, magnetismo e luce. C’è chi ha detto, anche tra fisici di grande rilievo, che questa è la più grande scoperta singola scientifica di sempre». |