«Il nostro enorme spazio, chiamato prima Unione Sovietica e ora Russia, è più importante dell’individuo, sacrificato prima sull’altare delle conquiste e adesso su quello della loro conservazione», dice la scrittrice premio Nobel Svetlana Aleksievich. La grandiosità del Paese era quello che lo rendeva straordinario, la sua ragion d’essere, il suo vanto e il suo cruccio. «Siamo troppo grandi per non essere governati da un pugno di ferro», dicono molti russi, trasformando le dimensioni in destino e valore irrinunciabile che fa vivere il ridimensionamento post-sovietico come una mutilazione, e la riconquista della Crimea come trionfo nazionale. Nelle «distese sterminate», secolare cliché dei diari di viaggio russi, l’infinito degli ambienti pubblici (che si tratti della maestosa natura o di monumentali architetture) contrasta con una perenne scarsità della dimensione privata, contrassegnata - dalla izba contadina alla komunalka pietroburghese - da spazi angusti e sovraffollamenti angoscianti. Dietro le facciate dei «villaggi Potiomkin» (un altro cliché russo) della Piazza Rossa e dintorni, un’umanità ostinata ha cercato di rendere questo mondo abitabile, creando riti di sopravvivenza, ritagliandosi nicchie private, forgiando strutture sociali che solo in quegli spazi potevano nascere. Da quel continente sommerso Gian Piero Piretto, uno dei maggiori studiosi italiani di Russia, propone una memoria-ricerca-cronaca, Indirizzo: Unione Sovietica. 25 luoghi di un altro mondo (Sironi, pp. 291, € 22,90), che segue l’esplorazione archeologica degli «oggetti sovietici» fatta dallo stesso autore qualche anno fa. Una Urss dietro le quinte, documentata minuziosamente: foto d’epoca, manifesti, ma anche oggetti quotidiani che non guadagnano l’onore dei musei, biglietti del tram, tessere di razionamento, locandine pubblicitarie, fino agli assi del water, che nei bagni delle case in coabitazione venivano appesi sopra la tazza, uno per ogni famiglia di inquilini, per un minimo di igiene e intimità. «10 metri per 100 persone» Il titolo del libro è quello di una marcetta di propaganda degli Anni 70, che doveva infondere l’idea di opportunità infinite, ed era stata ribattezzata ironicamente «la canzone del marito in fuga dagli alimenti». In un Paese con le frontiere chiuse e il passaporto interno si viaggiava molto, ma per volontà dello Stato: a fare il militare a Vladivostok, poi a lavorare a Kiev e a esplorare le terre vergini nel Kazakistan (per non parlare delle deportazioni nel Gulag). Forse è per questo che in Russia, come scrive Marco Belpoliti nella prefazione al volume, la malinconia dello spazio prevale su quella del tempo, e l’immagine di una strada che si perde all’orizzonte è frequente nella cultura russa quanto in quella americana, ma invece di trasmettere l’incanto della frontiera appare desolata e triste. E nei 25 «indirizzi» descritti - non luoghi concreti, ma habitat tipici, dalla metropolitana al cimitero - domina la ricerca di «un territorio non contaminato dal filisteismo sovietico, quindi dotato di categorie quali raccolta intimità, discreta cortesia, accettabile pulizia, relativa tranquillità», il sogno del privato in un regime che non lasciava mai i sudditi soli. E così ecco la camera, unità abitativa primaria in un mondo in coabitazione, e la cucina, «10 metri per 100 persone» secondo il cantautore dissidente Yuli Kim (e 10 metri erano già un lusso per pochi), con interminabili bevute di tè e vodka e discussioni a cuore aperto. O gli indirizzi di una vita più «borghese», come la gelateria con il dolce «champagne sovietico», tra stoviglie raffinate e tende di tulle arricciato, sinonimo di eleganza nella Russia sovietica, o il mercato ortofrutticolo, unico costoso spaccio di cibi freschi e non in scatola, o il «magazzino universale», come i Gum. Fino alla dacia, torre d’avorio della nomenclatura a cominciare da Lenin e Stalin, mentre per la gente comune era la casetta con orticello dove riesumare istinti contadini, o darsi all’ozio oblomoviano, incuranti dell’assenza dei servizi igienici. Luoghi dove rifugiarsi dagli spazi pubblici, come la via, invasa da un fiume umano frenetico, con «camminata risoluta e addirittura violenta», gomiti in fuori e spalle irrigidite «per parare colpi e spintoni», dagli autobus strapieni, dalla coda (insieme rituale sociale, condizione esistenziale e corso di sopravvivenza), in un «universo sudicio» dove (e lo si nota molto nelle foto del libro) le espressioni erano cupe, le labbra serrate, gli sguardi spenti di fatica, soprattutto quelli delle operaie robuste impegnate in lavori pesanti, forse le mamme delle moscovite glamour di oggi. Un «altro mondo» Molti «indirizzi» assumevano un ruolo ribaltato rispetto alla destinazione originaria: i sottopassaggi ospitano il commercio semiclandestino delle babushke con mazzetti di fiori e prezzemolo, i cortili diventano luoghi di gioco e crescita di intere generazioni, gli androni rifugio di coppiette evase dal moralismo sovietico (e, negli anni postcomunisti, teatro di omicidi su commissione). I parchi per la «ricreazione acculturata» erano la meta prediletta degli ubriaconi, il bagno a vapore un club interclassista di cameratismo maschile. Un «altro mondo», come ricorda il sottotitolo, ricreato in nostalgie proustiane condivise da molti russi, come quella del gelato alla panna venduto per strada d’inverno, o del kvas di segale fermentato. Quello vero, non quello in bottiglia che Putin ha offerto a Renzi all’Expo. |