«Avete semplicemente annientato il suo corpo, ma non riuscirete mai a distruggere quello che lui ha ormai dato per il lavoro, la famiglia, la società. La luce del suo spirito brillerà sempre annientando le tenebre nelle quali vi dibattete». In queste parole, su una targa, collocata nell'atrio del terzo piano del Tribunale di Milano, c'è tutto il senso di una vita spezzata e di un impegno che ha superato anche la morte. La vita e la morte del magistrato bergamasco Guido Galli: ucciso il 19 marzo 1980, dentro l'Università statale di Milano, mentre si recava a far lezione nell'aula 309. Proprio là dove oggi, sulla porta, altre parole ricordano che «fu assassinato dai nemici della libertà» e che «la sua lezione continua, più ferma, più alta», quasi replicando - a distanza di anni - alla farneticante rivendicazione dell'omicidio all'Ansa in quel tragico giorno: «Oggi Prima Linea ha giustiziato con tre colpi calibro 38 SPL il giudice Galli che appartiene alla frazione riformista e garantista della magistratura, impegnato in prima persona nella battaglia per ricostruire l'Ufficio Istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente e adeguato...». Insomma: ammazzato perché svolgeva con coscienza il suo lavoro, e perché aveva disposto il rinvio a giudizio di diversi esponenti di formazioni eversive a seguito di un'inchiesta iniziata nel settembre 1978 e passata anche attraverso Bergamo. Dunque, tolto di mezzo perché fedele servitore di quello Stato - agli occhi accecati dei terroristi «borghese-fascista-capitalista per definizione» - che doveva essere «abbattuto» insieme a quelli come lui che volevano farlo funzionare. Inizia così da quelle cronache solo apparentemente lontane, il libro Aula 309 (Sironi, pp. 208, euro 16), che Renzo Agasso ha dedicato non solo al profilo biografico del giudice Galli ma anche a quel tempo storico e politico, di morte e follia, che testimonianze e interviste raccolte in queste pagine restituiscono nitidamente al lettore, compreso chi scrive, ai tempi universitario a Giurisprudenza in via Festa del Perdono e che da allora non ha più dimenticato la «309». Un mosaico completo nella sua essenzialità quello ricostruito da Agasso. «L'uomo, il marito, il padre, l'amico, il magistrato e il docente universitario emergono come se la vita non ne fosse stata fermata, ma anzi resa di più facile, definitiva, robusta e pubblica comprensione e proprio da chi, per radicale rifiuto di confronto e dialogo, elesse Guido Galli a obiettivo da abbattere», scrive nella prefazione Umberto Ambrosoli. Ed ecco alternarsi nel volume resoconti e riflessioni. Capitoli che parlano del giovane magistrato che aveva rinunciato «ai grandi clienti» per «un mestiere» che potesse dargli «la grande soddisfazione di fare qualche cosa per gli altri» (così Guido Galli scriveva al padre Roberto, ingegnere, fondatore della Sace a Bergamo, in una lettera del 1957) e capitoli che aprono squarci di vita privata nei ricordi toccanti e discreti della moglie Bianca Berizzi, dei figli: Carla, Alessandra, Giuseppe, Paolo e Riccardo (quest'ultimo accolto dalla famiglia quando rimase orfano di entrambi i genitori, la mamma Adele Berizzi, sorella di Bianca, e il padre Tommaso Quarto di Palo). E ancora, capitoli tessuti sui ricordi di colleghi come Gian Carlo Caselli, Armando Spataro, Ferdinando Enrico Pomarici ed altri, fitti di rimandi alla fine degli anni Settanta, alle indagini su Corrado Alunni e alla gestione magistrale della maxi-inchiesta sulle «Formazioni comuniste combattenti» e, in particolare, su «Prima Linea». Fra nuove strategie processuali e inedite forme di collaborazione tra magistrati e giuristi nello sforzo di adattare il codice e le tecniche d'indagine al fenomeno del terrorismo che dal 1982 vide la «legge sui pentiti». E a proposito di Prima Linea e di pentiti, Agasso dedica un capitolo del libro ad un piellino dello stesso commando responsabile dell'omicidio di Galli: Michele Viscardi, bergamasco come la sua vittima: il «killer dagli occhi di ghiaccio» come lo definiva la stampa che, nelle parole della vedova Galli, viene descritto come «il manovale, non certo un capo, che poi ha fatto il pentito, denunciando i complici». «Abitava non lontano da noi a Bergamo. Mi faceva effetto che proprio un bergamasco avesse partecipato all'uccisione di Guido», continua Bianca Berizzi e aggiunge: «Di lui non s'è più saputo niente, ha fatto i suoi pochi anni di carcere ed è scomparso. Ma i leader erano ben altri». «Oggi, scontata la pena, gli assassini del giudice Galli sono liberi e uno di loro ha scritto vari libri, uno dei quali dedicato ai figli dei terroristi...», con «una sorprendente capacità di autoassoluzione», ha scritto qualche settimana fa Marco Restelli. Ma non è tutto. Anzi, a ben guardare, le parti più toccanti del libro, mi pare si possano trovare nei ricordi di Galli affidati alle parole dell'allora parroco di Piazzolo - e oggi vescovo di Fidenza - monsignor Carlo Mazza. Che afferma: «Era l'esempio alto della parte più elevata della nostra cultura bergamasca e dei suoi valori: esserci senza farsi vedere, lavorando per il bene comune. Credente in una forma dimessa, umile, schiva, però molto solida. Guido Galli era molto amato, era un uomo amabile ed è stato corrisposto. Era uno di quegli uomini speciali che ogni tanto il Signore ci dona e poi ci porta via in fretta, come sacrificati». Lassù a Piazzolo, Galli, amante della montagna, tornava nella casa materna quando poteva, a godersi la famiglia e la pace, la neve e il sole. Lassù, in quell'angolino di quiete della Val Brembana, adesso riposa nel piccolo cimitero dietro la chiesa. |