Zoe vive una vita normale, quasi da fumetto. Se entri nel libro di Silvia Bonucci senza sapere cosa ci sia dentro, puoi quasi pensare che la protagonista di Distanza di fuga sia una sorta di Amélie Poulain in salsa italiana. È una trentenne lieve, sensibile, apparentemente risolta che passa la sua vita tra la cura dei suoi pazienti e quella del cane. Lavora a Genova, ha un nonno saggio che ha fatto il bidello ma si è costruito una vita parallela da documentarista, e nulla farebbe presagire che la sua vita si sia incrociata con il dramma. Ma adesso smetto per un attimo di parlarvi di questo libro che in copertina ha una spensierata illustrazione di Beppe Giacobbe, ha colori pastello con una dominante verde acqua, e vi metto a parte di un interrogativo ossessivo che una collega di «Liberazione», Stefania Podda, ha trasformato in un piccolo saggio. Come mai la letteratura statunitense, in un paese che quasi non ha conosciuto il terrorismo, ha partorito un capolavoro come Pastorale americana, mentre quella italiana, che ha conosciuto la più lunga e feroce guerra non dichiarata e il temibile gruppo terroristico del mondo e tre grandi stragi, non è riuscita a partorire un libro? Solo perché l’America ha un narratore come Philip Roth? La risposta non regge. Avevamo Pier Paolo Pasolini, avevamo Italo Calvino, avevamo Primo Levi e Paolo Volponi. Ma tuttavia, nemmeno negli anni Settanta e Ottanta, abbiamo avuto un grande (o piccolo) libro sugli anni di piombo. Subito dopo abbbiamo conosciuto un altro curioso paradosso. Fino a quattro anni fa la più importante produzione letteraria sulla stagione della lotta armata era la memorialistica dei carnefici. E tuttavia il racconto del tempo del sangue era quasi un tabù, anche per la saggistica. Poi, dopo Spingendo la notte più in là di Mario Calabresi (un libro svolta) è nata una controcorrente letteraria (e non solo documentale) che ha restituito la parola alle vittime, e ai figlil delle vittime. Il libro che ha toccato l’acuto, forse. Più quello di Benedetta Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore: un libro che andava oltre la semplice autobiografia, e oltre la pamphlettistica, per ripensare in maniera narrativa il rapporto trai padri e i figli, fra il presente e il passato, la ricerca del padre non più come indagine, ma come viaggio scritturale. Quello che dovremmo chiederci (se lo è fatto in un saggio Demetrio Paolin) è: come mai non abbiamo ancora visto nascere un grande romanzo su questo frammento della nostra storia? In fondo Il sentiero dei nidi di ragno o Il partigiano Johnny raccontarono la resistenza quando la guerra di liberazione del 1945 era ancora una pagina del passato prossimo. Il terrorismo no, rimane un tabù che solo con gradualità e con fatica si riesce a superare. Adesso torniamo al libro di Silvia Bonucci e alla sua spensierata Zoe. L’idillio della scrittura spensierata si infrange improvvisamente a pagina 31, quando l’autrice mette in scena una finta intervista che potrebbe essere tranquillamente tratta da un programma come La notte della repubblica, di Sergio Zavoli. A parlare è un ex terrorista, Armando Anselmi: e dopo poche battute capiamo che è stato lui a giustiziare uno dei giurati al processo di Torino contro le Brigate Rosse. Perché? Per intimidirlo. “Molti giurati hanno avuto paura”, dice l’ex terrorista. “Molti, ma non Carlo Vinciguerra”, risponde il giudice. “No, lui no”, risponde il terrorista. Da questo momento il libro spensierato e la sua narrazione diventano tesi come un corda di violino. A pagina 66, in un libro in cui le inserzioni narrative in altri corpi contrappongono la voce primaria del narratore, un altro frammento di verità arriva attraverso il corsivo di un tema che Zoe ha scritto da bambina. Più avanti i personaggi e i piani narrativi si incrociano nel presente. Le memorie dei due nonni (il padre del papà di Zoe e il padre del terrorista che gli ha sparato) e il loro carteggio epistolare, la vita di Zoe e una sua storia d’amore che rivela un colpo di scena, il terremoto emotivo del ricordo che deve negare anche a se stessa, il trauma che ha subito da bambina e che il lettore scopre poco a poco. Ad esempio quando Pietro, un uomo per lei molto importante le dice a bruciapelo: “Perché non mi hai mai detto che ti chiami Vinciguerra?“. Pietro è furibondo perché Zoe usa il cognome della madre, Vinci. E lo è per un buon motivo che qui non è il caso di rivelare per non guastare l’intreccio. Ma adesso vi spiego perché nel filone di attenzione che Il Fatto dedica agli anni di piombo abbiamo deciso di parlare proprio di questo libro. È come se la risposta alla domanda di Stefania Podda e agli interrogativi contenuti nei saggi di Paolin sia in parte contenuta anche in queste pagine. È come se la memoria degli anni di piombo sia una scoria nucleare che questo paese non riesce ancora a digerire, e quindi nemmeno a metabolizzare con gli strumenti classici della letteratura, che poi sono quelli dell’invenzione della trasfigurazione. E così provo a dare questa risposta: come si può trasfigurare qualcosa su cui non esiste ancora una memoria, non dico condivisa (come si augurava Carlo Azeglio Ciampi), ma nemmeno comune? Xavier Cercas ha potuto scrivere Soldati di Salamina, libro decisivo sulla guerra civile perché la stampa è riuscita a elaborare il suo lutto e a dare una sistemazione storica alla sua memoria lacerata. Noi non abbiamo ancora nemmeno una memoria giudiziaria, abbiamo le assoluzioni e gli omissis e quindi non possiamo sistematizzare i nostri problemi e nemmeno seppellire i nostri morti. Ecco, confesso che quando ho visto la copertina del libro della Bonucci ero scettico. Forse per la diffidenza scettica che il documentarista ha per i lavoratori dell’ingegno. Quando l’ho chiuso, invece, mi sono convinto di aver capito una cosa. Se c’è una via per chiudere i conti, in questo tempo e in questa drammatica fase di immaturità collettiva, c’è bisogno di qualcuno che riesca ad attraversare il peso del piombo e del lutto con innocenza. C’è bisogno di una Zoe Vinci, o Vinciguerra, c’è bisogno di un tocco leggero e di un grande lavoro di sottrazione. Nelle ultime pagine e nell’ultimo colpo di scena, infatti, Zoe trova una strada per dare una via d’uscita al suo dolore, che non è quella della vendetta. Forse non è la risposta che vale per tutti, di certo è una risposta, una delle prime che arrivano da un libro. Distanza di fuga non è ancora la soluzione epica che Philip Roth ha dato alla rabbia datata dei Weatherman. Ma è una possibile soluzione. Ed è una soluzione avvincente che si legge in una notte insonne. È un libro che si potrebbe far leggere a una ex vittima o a un ex terrorista o a uno studente di liceo. In punta di piedi, e con un tono minimale, come se questa fosse l'unica via possibile, oggi per attraversare l'inferno delle ferite non rimarginate. |