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Libri: Tullio Avoledo, "L'elenco telefonico di Atlantide" |
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Il Foglio, 21.02.2003 |
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Mettiamola così: generalmente, oggi, è impossibile mettere assieme la teoria del complotto planetario, i testi gnostici e un avveniristico progetto informatico di sopravvivenza della mente umana dopo la morte, il Sacro Graal, il nazismo esoterico, la Fonte dell’Eterna Giovinezza, le perversioni della New economy, gli universi paralleli, le divinità dell’Antico Egitto, l’Arca dell’Alleanza e per di più la denuncia sociale e pensare di tirar fuori un buon romanzo. Generalmente, appunto. Perché la new entry della narrativa italiana Tullio Avoledo, l’ultima scoperta di Antonio D’Orrico, critico letterario di Sette, ce l’ha fatta e anche benone. Certo, Avoledo non c’entra niente con i “pesi massimi” del romanzo, chessò Vladimir Nabokov o Francis Scott Fitzgerald, ma tra i “leggeri” (leggi narrativa di genere o d’intrattenimento) è un grande. I meccanismi narrativi funzionano che è un piacere, la lingua è pulita, secca. I personaggi sono simpatici o insopportabili al punto giusto (e l’architetto Fabrici è una signora macchietta), la verve comica godibile (vedi la spassosa riunione condominiale), le descrizioni d’ambiente per fortuna non esistono e i dialoghi sono da manuale (a caso: la conversazione telefonica tra il protagonista e il direttore di filiale, pp. 127-130; leggere prego). E fino a qui, il giudizio sul libro.
Passiamo al plot (ovvero intreccio).
Raccontare di cosa parla il romanzo è piuttosto facile, anche se la trama e le numero se sottotrame si ingarbugliano per più di
cinquecento pagine (nota: gli incastri temporali sono delle vere acrobazie). Comunque, è la storia di un impiegato di banca (ufficio legale) impantanato nella routine del solito Nord-est, moglie e figlioletto a carico, un amico malato di Aids e il lavoro che improvvisamente fa “crac”: il suo istituto di credito sta per essere fagocitato da un colosso finanziario americano e delle due l’una: o accetta il trasferimento a Milano o si licenzia. Che fare?
Già, che fare visto che, nell’ordine: 1) un hacker che sembra uscito da un B movie sta ricattando la banca e questa è l’ultima gatta da pelare che ti rifilano i tuoi superiori prima del benservito; 2) scopri (mica poi tanto per caso) che nel condominio in cui vivi, stranamente, è da anni che nessuno muore né si ammala; 3) la nuova capa del personale mette in crisi il tuo matrimonio molto più di quanto già non lo sia;
4) un vecchio signore metà ebreo metà veneziano che incontri in treno ti racconta una strana storia del mondo che avresti preferito non sapere; 5) oltre che cinico e un po’ razzista sei un tipo piuttosto curioso, e comunque visto che non hai nulla da perdere tanto vale buttarsi nella mischia. Ecco: il nostro impiegato si trova proprio a questo punto quando mancano circa cento pagine alla fine (che naturalmente non sta bene svelare). Basti dire che l’idea del colpo di scena a Tullio Avoledo l’ha servita su un piatto di silicio niente meno che Arthur C. Clark, quello di “2001: Odissea nello spazio”, con il quale questo esordiente ha uno scambio epistolare da anni (in verità ce l’ha con qualche decina di scrittori di lingua inglese, da John Le Carré a David Foster Wallace). Ma davvero, ci si chiede nel libro, la differenza tra realtà e utopia è tutta in un microchip?
A proposito, Tullio Avoledo è friulano, ha quarantacinque anni. Si favoleggia abbia imparato l’inglese da solo visto che a un certo punto della vita, chissà perché, ha deciso di leggere l’opera omnia di William Shakespeare nell’originale. Naturalmente ha altri due libri pronti nel cassetto, lavora nell’ufficio legale di una banca di Pordenone e rispetto al protagonista del romanzo, tra nome e cognome, ha solo quattro lettere di differenza. Solo uno dei due, però, lo troverete sull’esclusivissimo (e puntualmente misterico) elenco telefonico di Atlantide. |
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