Massimo Cassani, apprezzato giornalista varesino de “Il Sole 24 Ore, ha scritto un “noir” edito da Sironi e in vendita nelle librerie da un paio di settimane. “ Sottotraccia “ - questo è il titolo del romanzo - per l’ impianto, la credibilità di vicende e protagonisti e per una scrittura esemplare si affaccia con tutte le carte in regola a un frequentatissimo mondo .
Per conoscere meglio Cassani, che è alla sua prima opera, l’appuntamento è per giovedì 4 dicembre alle 18 presso la biblioteca di Laveno.
Varesenews anticipa il profilo dello scrittore, davvero promettente, che emerge da un’intervista rivelatrice della cultura, dello studio e dell’impegno necessari per chi si accosta a un genere letterario che da tempo vanta la presenza di grandi autori.
Ogni generazione offre ai giovani un ventaglio di scrittori che incideranno sulla loro formazione non solo culturale. Il giovane Massimo Cassani da chi è stato attratto e perché.
«Dal punto di vista delle letture credo di aver avuto, fin dall’inizio, un percorso piuttosto eterogeneo: da Natalia Ginzburg a Bukowski, da Hemann Hesse a Hemingway, da Henry Miller da Dostoevskij a Stefano Benni a Kerouac. Ero curioso di capire come scrivevano, quali storie volevano raccontare, quali esperienze volevano comunicare. E dopo ogni libro mi convincevo sempre di più che qualsiasi proposito di scrivere una storia mia era del tutto improponibile. Forse per questo sono arrivato a pubblicare il primo romanzo a 42 anni suonati».
(sopra Massimo Cassani in una foto di Roberta Mazzoleni)
Nel tempo, con quali altri autori si è sentito in sintonia?
«Ne cito due, fra i tanti: Guido Morselli e George Simenon, soprattutto il Simenon dei cosidetti non-Maigret, cioè i romanzi non polizieschi. Di Morselli sono sempre stato incantato dalla sua capacità di viaggiare fra i generi con una disinvoltura straordinaria. Chi prova a rapportarsi con la parola scritta sa bene quanto sia difficile staccarsi da se stessi, dal proprio modo di pensare, dai propri ambienti. Morselli invece sapeva pensare e comportarsi da sacerdote, come in "Roma senza papa", o da donna, come in "Incontro col comunista", con una capacità introspettiva davvero coinvolgente. Di Simenon, invece, ho sempre amato la sua fluidità di scrittura e le sue doti di sintesi: in due sole righe sa raccontare la storia e il senso di un’intera famiglia, sto pensando per esempio a Il testamento Donadieu. E poi c’è un’altra cosa di Simenon che rappresenta la cifra inconfondibile della sua scrittura: leggendo i suoi romanzi sembra addirittura di sentire l’odore degli ambienti o il sapore dei cibi. E tutto questo con un linguaggio narrativo accessibile al vasto pubblico».
Il “giallo” nel suo lungo cammino ha sviluppato generi diversi, sempre anticipati da autori anglosassoni. Ricorda del mistery, come sarebbe più corretto definirlo, quelli che richiamavano la sua attenzione di semplice lettore? E oggi chi sono i suoi colleghi cult?
«Come lettore non vengo dal genere. Se togliamo il Simenon dei Maigret, il Camilleri di Montalbano e Frederich Glauser, non a caso considerato il Simenon svizzero, fino a tre o quattro anni fa non avevo particolari riferimenti. Poi, quando è nato il progetto di "Sottotraccia – Le inchieste del commissario Micuzzi", ho cominciato a prestare più attenzione a gialli, noir e affini. È stato allora che ho scoperto autori come Raymond Chandler, Fred Vargas, Margaret Doody, Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto, Loriano Macchiavelli, Léo Malet, Jean-Patrick Manchette, Marek Krajewski, Manuel Vàzquez Montalbàn, James Sallis, Jean-Claude Izzo, Jasper Fforde, anche se quest’ultimo è difficilmente catalogabile in un preciso genere letterario».
In Italia per decenni è stata comune opinione che il “giallo” dal punto di vista strettamente letterario, fosse autentica spazzatura. Poi si è iniziato un lento processo di revisione che ha restituito il maltolto a non pochi autori con il risultato di recuperare alcuni veri talenti di epoche lontane.
«Vero. C’è spesso un atteggiamento snobistico che vuole ciò che è popolare automaticamente di basso rango. Ciò che si è sempre fatto fatica a capire, o forse semplicemente ad accettare, è che il giallo, dico anch’io così per semplificare, è uno strumento narrativo molto versatile. Attraverso il giallo sono stati divulgati concetti e visioni di grande significato a un pubblico di lettori di differenti livelli culturali».
In ogni caso lo snobismo nei confronti del genere poliziesco è segno di ignoranza, dal momento che anche eccellenti scrittori lo hanno frequentato: ne cito tre, Piero Chiara, Raffaele Crovi e Giuseppe Pederiali per ragioni diverse vicini alla nostra Varese. E in campo internazionale non va dimenticato il livello letterario del capostipite del mistery, Edgar Allan Poe.
«E che dire del Giovanni Testori di "Nebbia al Giambellino", del Gadda di "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana", dello Sciascia de "Il giorno della civetta" o dei romanzi della ligèra di Giorgio Scerbanenco? Penso che Scerbanenco abbia saputo fotografare la Milano degli anni ’50 e ’60 con la medesima qualità letteraria del Bianciardi di "La vita agra". Oltretutto, questi romanzi sono una testimonianza di una realtà, mi riferisco a Milano, che nel corso degli anni si è completamente trasformata. Faccio solo un esempio: pensate a quanta nebbia si respira nei romanzi di Scerbanenco. A Milano, da vent’anni almeno, quella nebbia, quel nebiùn, non c’è più, è sparita».
Quando e perché ha deciso di calarsi nella realtà letteraria del “giallo”?
«Le idee che hanno dato origine a Sottotraccia erano sostanzialmente due e nessuna delle due di marca gialla. Per la prima devo tornare a Milano, la città in cui vivo. Mi piaceva l’idea di mettere a confronto una realtà come quella milanese, spesso descritta come dinamica, efficiente, di successo, con un protagonista, il commissario Micuzzi che, al contrario, era svagato, solitario, un po’ spampanato, impacciato con le donne, insomma tutto fuorché di successo, appunto. La seconda idea, invece, si basava su una mia personale ossessione: compiere, in modo quasi inconsapevole, un gesto apparentemente innocuo e scatenare le ire dell’inferno. E’ quanto capita a uno dei personaggi della storia, Xavier Rondanini, aspirante scrittore sull’orlo del fallimento totale. La scelta del giallo per dar corpo a queste due idee è venuta subito dopo: le storie con questo taglio arrivano dirette al lettore. E si corre meno il rischio di derive romantiche. Non sta a me dire se ci sono riuscito, ma quello era l’obiettivo».
Quando e perché ha deciso di diventarne protagonista?
«Protagonista è una parola un po’ grossa. Le ragioni per le quali un individuo si mette a raccontar storie scrivendo sono fra le più diverse. A me attirava l’idea, innanzi tutto, di riuscire a farlo, di reggere un racconto per trecento pagine, un racconto che avesse un senso, una direzione, una logica».
È importante anche conoscere le ragioni della sua scelta in ordine al genere che ha preferito.
«Qualche anno fa si parlava di ‘giallo mediterraneo’, identificando con questa definizione geografica un perimetro di autori, fra gli altri, come Izzo, Montalbàn, Camilleri, Carofiglio, Alicia Giménez Bartlett che pongono al centro dell’intreccio l’umanità dei protagonista e dei personaggi. Posto il fatto che certe definizioni peccano sempre di eccessiva semplificazione, credo di essere stato più influenzato da questa visione del giallo piuttosto che dal thriller di stampo statunitense».
Azione, violenza, sangue, sesso oggi sono costanti di noir, thriller, spionaggio a danno di tutto ciò che è tradizione del “giallo”. E’ accaduto anche in passato, negli Anni ‘20 e dopo la seconda guerra mondiale eppure gli investigatori classici non sembrano mai superati, hanno uno zoccolo duro di lettori. Come a dire che non manca mai la gente che riflette…
«Ma è il giallo stesso, per le sue caratteristiche peculiari, che fa riflettere. C’è un evento inspiegabile, un’indagine e una risoluzione. Sembra il paradigma della vita. La nostra esperienza individuale è spesso caratterizzata da questa dinamica, con l’unica differenza che, nella realtà, non sempre lo sforzo nel condurre un’indagine va a buon fine. Nel giallo, a parte rare eccezioni, come in Quer pasticciaccio bruttodi Gadda, la soluzione del mistero è d’obbligo, il che non è necessariamente sinonimo di lieto fine. Nei gialli che preferisco, per esempio, la soluzione dell’enigma non rende i protagonisti più felici, anzi a volte succede esattamente il contrario. La conoscenza spesso fa male, sebbene sia un male necessario. Faccio un esempio: un personaggio che riconosce nel proprio padre il responsabile di un efferato delitto non può essere contento di questa scoperta, anche se ha risolto l’enigma, magari al termine di un’indagine da manuale».
Uno scrittore di “gialli” ha sempre la necessità di offrire una storia originale che presenti pure una soluzione originale. Non le chiediamo di anticipare le sue scelte e le sue soluzioni, però può dire se ritiene di esserci riuscito.
«Mentre scrivevo "Sottotraccia" mi frullava in testa il titolo di un vecchio film di Massimo Troisi: Pensavo fosse amore e invece era un calesse. Mi sembrava una buona chiave di lettura per portare avanti una storia. Costruisco un intreccio credibile che porta il lettore su una strada sbagliata, dandogli però di volta in volta gli elementi per capire che in quella costruzione c’è sempre una falla in grado di metterlo in guardia. Più d’uno, a metà della della lettura, mi ha detto: ‘Mi sa che ho già capito tutto…’ salvo poi confessarmi di essere rimasto sorpreso dal finale. Ciò che più mi ha confortato, però, è stato verificare una cosa: il lettore non si è sentito preso in giro. Gli elementi per capire sono presenti in tutto il romanzo, basta saperli cogliere».
Incide la realtà della società odierna nel progetto di un racconto “giallo”? È accaduto anche nel suo romanzo?
«Sì e no. Sì, perché il giallo deve avere maggiore aderenza alla realtà rispetto ad altri generi letterari. E la nostra realtà offre innumerevoli spunti per imbastire intrecci appassionanti. No, perché, com’è noto, le motivazioni che spingono gli individui a delinquere sono spesso banali: passione, soldi, potere. Credo che il lettore, quando sceglie un giallo, abbia voglia di emozionarsi, stupendosi. E per stupire il lettore, in modo intellettualmente onesto s’intende, occorre un pizzico di trasfigurazione della realtà. Il rischio maggiore è di snaturarla eccessivamente, rendendo la storia inverosimile. Come sempre, è un problema di equilibri».
E poi quel titolo che sembra un anticipo di enigma...
«Può sembrare paradossale, ma la scelta del titolo è stata la cosa più difficile. Con gli amici di Sironi Editore abbiamo passato un pomeriggio intero a immaginare il titolo più adattato per questo romanzo. Ne avremo ipotizzati almeno una ventina, non scherzo. Il problema è che in Sottotraccia non c’è una sola storia. I filoni di indagine sono due, paralleli, e non si incontrano mai. L’unico elemento di contatto è il protagonista, il commissario Sandro Micuzzi. Il quale, oltretutto, si deve occupare anche delle sue vicende personali, della ex moglie che gli manda segnali contraddittori, di due donne che sembrano ciò che non sono, della sua vecchia Uno non catalizzata che ogni tanto si pianta come un mulo e della sua memoria che fa acqua come un colabrodo. Insomma, un casino, come è stato un casino trovare il titolo più adatto a questo groviglio di vicende. Sono già preoccupato per il titolo del secondo episodio della serie, previsto per il prossimo anno, in cui le storie parallele non sono due, ma almeno quattro…».
Lei è all‘esordio e si unisce a un gruppo abbastanza consistente di italiani nel complesso bene accolti dalle case editrici. Massimo Cassani, inoltre, è il secondo varesino che scende in campo in un breve arco di tempo: Franchini ha suscitato interesse, per Cassani allora c’è anche un derby da vincere.
«Nessun derby, anche perché io non sono varesino in senso stretto, ma varesotto, della provincia, e milanese d’adozione, quindi sto giocando per metà fuori casa. Scherzi a parte, Franchini ed io non ci conosciamo di persona, ma, tramite Facebook, siamo già entrati in contatto e ci siamo dati un generico appuntamento a una delle nostre presentazioni, qui in zona. So che Franchini ha scritto una storia molto radicata nel territorio varesino, prendendo ispirazione dai recenti Mondiali di ciclismo. Chi ha detto che per essere veramente internazionali occorre parlare del proprio paese? Vero. Io mi sento un po’ nel limbo: sradicato dalla mia realtà d’origine, ma non completamente inserito in quella milanese. Perché Milano, come tutte le grandi città, ha la capacità di farti sentire di casa ed estraneo, nel medesimo istante».
Quale messaggio contiene il suo romanzo?
«Bella domanda. I personaggi del romanzo esprimono tutti una profonda solitudine, ciascuno a suo modo. Più che un messaggio, quindi, credo che la storia fotografi una certa realtà, molto contemporanea. E poi penso che aleggi una certa nostalgia per la Milano che non c’è più, la Milano di Scerbanenco, di Testori, di Jannacci, Fo, Gaber. La Milano con la nebbia, appunto».
Chi la sta intervistando è un fan di tutto il mistery, da quello psicologico a quello d’azione, alle spy stories di Le Carrè, un vero asso, di Bruce, di Fleming o de Villiers; arrivando poi ai giorni nostri, non ha perso un’uscita della Cornwell o di Connelly. Il guaio è che qualche volta si trova a tifare per l’assassino. Che mi capiterà leggendo Cassani?
«Pensavo che il protagonista, il commissario Micuzzi, per quanto è imbranato, irritasse il pubblico femminile. Invece mi sono accorto che le donne si affezionano a lui. Un’agente letteraria che aveva letto il romanzo in originale mi disse che a Micuzzi, arruffato com’è, viene voglia di fare le coccole. Gli uomini, invece, credo saranno attratti da Corinna Bottacchi, moglie di uno scrittore venezuelano di fama internazionale. Di Corinna è bello tutto: il viso, il sorriso, le zampe di gallina attorno ai suoi occhi, il seno punteggiato da minuscole efelidi, la brillante intelligenza. E l’ambiguità…ma qui mi fermo, altrimenti che giallo sarebbe? E poi c’è un personaggio al quale è facile affezionarsi, un certo Grande, che sembra il degno erede della ligèra, la mala milanese che delinque, ma non fa male, di cui si è persa completamente memoria».