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Quella guerra vinta dalla compassione |
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Paolo Pegoraro, Letture, 08.03.2007 |
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Diciamolo subito chiaro e forte: Baracche è un’opera di alto valore letterario, nonché d’intenso spessore umano e documentazione storica. Tutti i membri del comitato scientifico di Letture ne sono convinti.
Secondo Sergio Tosatto «ufficialmente ci troviamo di fronte a un dilettante, mentre in realtà la scrittura è quella di un professionista». Ferruccio Parazzoli esprime il proprio stupore, da “uomo del mestiere”, di fronte alla tecnica, alla naturalezza, all’efficacia e all’urgenza di questa scrittura.
Baracche è un testo modernissimo, eppure è stato scritto durante il biennio 1944-1945, nel campo di prigionia di Wietzendorf, sui brandelli di carta più disparati che l’autore riusciva a racimolare. Con quei rari foglietti l’allora ventottenne Alessandro Dietrich avrebbe potuto benissimo farci cartine per sigarette – ricavandone un più immediato sollievo –, invece no: scrivere è un’impellenza, scrivere lo mantiene lucido quando gli animi vacillano, scrivere lo difende dalla rabbia e dall’odio, lo aiuta a restare fedele alla propria umanità. E il mucchio di noticine cresce, trova alloggio ora nelle tasche del cappotto o in una borsa, ora nel tascapane, lo accompagna nella desolazione del campo e nelle ore di fatica; poi, quel pacchetto di appunti fugge insieme a lui e al fratello Camillo, imprigionato a sua insaputa nello stesso campo, fino all’agognato confine svizzero. Al suo rientro in Italia Alessandro Dietrich pesa meno di 38 chili. Ricopia quelle schegge di meschinità e coraggio sui fogli protocollo del comune di Albano Laziale, dove lavora; corregge, cancella, modifica, precisa; ogni tanto ne legge qualche brano alla moglie Gabriella; poi chiude tutto in una cartellina verde mare sopra cui scrive: Baracche - Appunti. E la ripone. Sarà uno stimato sindacalista e sindaco di Albano per due mandati, anche se alla sua morte – nel 1985 – il suo partito lo ha abbandonato. Solo allora la famiglia può leggere per intero quel faldone di pagine vergate fitte fitte, ma la Medusa del dolore ammutolisce tutti ancora una volta, non si pensa a una pubblicazione.
Baracche è un inedito. Vede la luce sessant’anni dopo la sua scrittura e non accusa il colpo. A sorprendere immediatamente è la forma, come sottolinea il direttore Antonio Rizzolo, perché non si tratta di un semplice diario di ricordi. Dietrich non ha utilizzato le tranche come materiale per sviluppare una narrazione continua, ma ha consapevolmente mantenuto la distinzione dei frammenti – i più brevi sono di una riga, i più lunghi di sette pagine – separandoli con grossi asterischi che pungono come filo spinato. Sono slices of life, racconti, riflessioni, qualche poesia e soprattutto dialoghi: serrati, da sceneggiatura, quasi fossero una trascrizione in presa diretta del parlato del campo, con tanto di forme dialettali, tedesco storpiato e imprecazioni. Attraverso descrizioni scarnificate non per sottrazione, ma per concentrazione, conosciamo i suoi compagni di prigionia («Amedeo è d’un pallore verdastro e in testa porta uno zucchetto ricavato da un calzettone grigio; due toppe circolari gli corazzano il posteriore. Amedeo è tutto qui»). Lo sfondo invece scompare. Ci sono i “crucchi”, certo, e sappiamo che l’autore parla di Wietzendorf, la desolazione del fango e delle baracche appare invece sospesa, immutabile, come fosse da sempre e dappertutto. Alla scomparsa delle cose sopperisce la focalizzazione sul linguaggio: viene da pensare a una scenografia brechtiana, a un dialogo di profughi. Quasi che il mondo fosse incappato nei briganti e, denudato, costretto all’elemosina, non avesse nient’altro di suo, ormai, oltre all’autenticità della parola: i lamenti, le ingiurie, le preghiere, i sospiri di amori perduti, le baruffe con altri mendicanti, sguardi in cui si specchia la reciproca pietà.
Baracche è un campo di cristalli che si attraversa scalzi. Nel lager, il freddo è tale che si bruciano persino le tavolette della propria branda, pur di godere di pochi secondi di calore, però la fame fa barattare l’ultima maglia di lana per qualche patata e un pugno di farina. Per placare la morsa dell’istante. Per mettere a tacere la tortura dei sensi. Ma come difendersi dagli assalti dei ricordi – della famiglia e della guerra –, come difendersi dall’insensatezza di migliaia di uomini che convengono di uccidersi? Pur di evadere dalla prigionia del corpo o da una consapevolezza troppo acuta del presente, molti cominciano a coltivare ossessivamente un’illusione, un desiderio, un ricordo. Dietrich scrive su stricioline di carta e forse, agli occhi dei compagni, appare altrettanto matto. Altri, che non hanno il coraggio di cedere alla propria pazzia, si rassegnano a implodere nel più cinico egoismo.
Eppure non è un libro fosco,Baracche. C’è un esuberante amore per la vita; c’è speranza. Roberto Carnero vi coglie una grande leggerezza, una solarità che non si vuol piegare alle brutture. C’è spazio pure per l’ironia («Hai un libro?». «Sì, ma forse l’hai letto...». «Che gli fa... io ho la diarrea...»). Ci si sfotte, tra prigionieri, ci si rimbecca, ci si provoca, si scherza, si fa il presepe per Natale, fosse pure con uno scatolone, e si prova a fare un dolce con due patate, senza lo zucchero: l’ironia è un’alternativa alla tentazione del lasciarsi sommergere dalla tragicità. Prendere distanza. Eppure il tratto più incisivo di Dietrich è la partecipazione: preferisce un’emotività pure sanguigna al murare comparti del proprio cuore per non soffrire. Ed è questo che lo salva: la tenerezza, talvolta ruvida, verso il fratello Camillo; l’infastidire un compagno di baracca che si sta lasciando morire; lo spingere il denutrito Amedeo ad accettare il lavoro offertogli dai “crucchi”, senza preoccuparsi di cosa diranno gli altri della baracca. La compassione squarcia le pagine con apparizioni impreviste e genuine, come quando un soldato spintona il prigioniero due volte e lui, guancia sulla sabbia e luce negli occhi, dice a se stesso: «Non ci posso fare niente, io: con questo sole non so odiare. Hanno fregato anche lui... povero cristo...». Non odiare non solo per conservare la propria umanità, pure per recuperare quella dell’altro. Don Rizzolo rincara la dose: questo libro «se uno lo medita veramente, permette di rompere con qualsiasi preconcetto ideologico, a prescindere da qualunque “parte” appartenga». In effetti, all’autore basta una parola per sgonfiare la ridicola intransigenza delle appartenenze («Se vai a lavorare, ti vendi al nemico!». «E se resto, che faccio?»).
All’incontro di redazione partecipa anche Nanni Dietrich, secondo dei suoi quattro figli e autore di una introduzione intensa e sofferta, dove tra l’altro annota: «Ho l’impressione che gli anni [...] abbiano cancellato dalla mia memoria i ricordi di lui, poi m’accorgo che non è vero, che è quasi una pioggia, mi sovvengono a valanga uno dietro l’altro». Succede anche durante la nostra conversazione, quando Nanni improvvisamente ricorda di come il padre lo fece appassionare ai Promessi sposi. Visibilmente commosso, condivide con noi quello che prova: «Adesso sento la presenza di papà accanto – come dice una canzone di Peter Gabriel – “Io sono schiena a schiena con mio padre”, with my dad by my side. Mi trovo in questa situazione, mi provoca un’emozione straordinaria».
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