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Appunti, poesie e diari: manuali di sopravvivenza nell'aria torbida della guerra |
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Paolo Di Stefano, Corriere della Sera, 23.01.2007 |
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«Ciò che stava per fare era iniziare un diario». Winston si chiese per chi l'avrebbe scritto, quel diario: «Per il futuro, per gli uomini non ancora nati», rispose tra sé. Orwell immagina che l'atto più temerario del suo protagonista, sotto la dittatura del Grande Fratello, sia questo: scrivere clandestinamente. Come Winston, sono stati molti, per fortuna, quelli che, quando il loro dramma si è trovato a incrociare il dramma della storia, si sono messi a scrivere lettere e diari. In vista del Giorno della Memoria, gli editori buttano fuori quel che ancora è rimasto conservato nei cassetti degli italiani. E si tratta, a volte, di fogli pregevoli. Come gli «appunti di prigionia» di Alessandro Dietrich (Baracche, Sironi Editore). Dietrich, che nel dopoguerra sarebbe stato sindacalista e poi sindaco di Albano Laziale per il Pci, era allora un ufficiale dell'esercito italiano. Rimpatriato per una ferita dall'Albania, fuggì dopo l'8 settembre ma fu catturato a Cantù, processato e condannato a morte. Grazie a un amico, eviò la pena capitale. Fu deportato a Dachau e poi «schiavo di Hitler» a Wietzendorf. Nel campo tedesco incontrò suo fratello Camillo e condivise con lui due anni di fame e fatiche. Arrivò a pesare 38 chili. I suoi appunti sono stati recuperati dai figli dopo la sua morte, avvenuta nel 1985. È un diario con rapidi scambi di battute e tanti puntini di sospensione, tipo blog, frammenti narrativi, dialoghi e pensieri. Come questo: «L'alba mi saluta così: in questo giorno non morirai». O questo, molto più prosaico: «Immergi la margarina nella sbobba con tutta la carta (...) È tutto grasso che recuperi». Ricordi dell'infanzia, incubi notturni, fame fame fame, maledizioni, gelo, tradimenti, angosce, ironie, «porcazzozza», «maremma 'ane», corpi in fila per la sbobba. E poi la fuga a piedi verso casa. L'odissea penosa e picaresca di quella che Natta definì «l'altra resistenza».
Dietrich non è uno scrittore, ma sa ascoltare le voci di dentro e di fuori. Non è detto che gli scrittori sappiano fare di meglio. Ma Giorgio Caproni sì: soldato, scrisse versi delicati per Rina, sua moglie («bontà solo ci resta, / tu persa in quella terra / di pietra, io solo in questa / silenziosa mia guerra»), e le lettere miste di «tenero e patetico» ora raccolte con le poesie a Rina in Amore, com'è ferito il secolo (Manni editore, a cura di Stefano Verdino). Piero Chiara scrisse giorno dopo giorno il suo Diario svizzero di esule (pubblicato da Casagrande), meno emotivo e meno frammentario di quello di Dietrich. Più distesa è la sua condizione di «prigioniero» (le patate non mancano, anzi), più distesi i suoi appunti. Negli stessi mesi in cui Dietrich viveva la sua via crucis, Chiara oltrepassò il confine dalla valle della Tresa e il 23 gennaio 1944 era già in Ticino. Così, poteva almeno permettersi di guardare il variare del tempo: «Il vento ha cambiato direzione e venendo da sud ha portato il bel tempo. C'è un sole caldo che risveglia la vita e mi porta i profumi dell'estate». (...) |
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