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DAVIDE BREGOLA: La cultura enciclopedica dell’autodidatta (2006) |
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Saverio Fattori, blackmailmag.com, 01.09.2006 |
blackmailmag.com |
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Bregola ha scritto un libro che ha pretese, è intrattenimento sì, ma destinato a lettori forti, già tenuti in ostaggio dalle stesse domande insolubili che l’autore ossessivamente si pone. Il senso della letteratura, l’urgenza inutile di questo mezzo onanistico e violento, il ruolo del giovane intellettuale che non si piega allo studio legale o alla fabbrica di polistirolo, che combatte una battaglia disperata sempre sul filo dell’indigenza economica.
Il fisico dell’autodidatta è debilitato (insonnia, infiammazioni alle vie urinarie) da un cervello che brucia senza requie, sempre impegnato a deframmentare e a ricodificare i messaggi esterni che non scivolano mai addosso, ma scavano ferite alleviate da sedativi che regalano speranze e nuovi disagi. La pubblicazione di un libro, le presentazioni in giro per l’Italia, le prime timide frequentazioni cultural mondane spesso deludenti si intersecano con le problematiche di sempre, una vita di coppia logora, adulterio ad alta concentrazione di complessi di colpa, la maledizione del proletariato, la precarietà lavorativa, i genitori che iniziano ad assomigliarci pericolosamente e ad apparire nella loro fragilità.
“Mio padre conosce l’infelicità di guardare indietro nel tempo. Non è mai stata la persona che appiattisce i ricordi in una nostalgica beatitudine.”
La figura paterna percorre dolorosamente le pagine. Così è per il Dies Irae di Genna del come per il Lunar Park di Ellis, come se l’avanzare del tempo ponesse l’impellenza di gestire da scrittori prima che da esseri umani, l’insostenibile trauma della presenza di un altro adulto così simile a noi, destinato però a sfaldarsi davanti ai nostri occhi.
La costruzione di questa operetta morale di autofiction poggia su una estenuante ricerca filosofica della verità . È battaglia destinata all’insuccesso, i mulini a vento non sono mostri identificabili, ma danno sberle pesanti, il territorio frana sotto i piedi e nulla di assoluto e di concreto finisce nella rete dell’io narrante, Giovanni Costa, giovane e brillante giurisprudente scoppiato.
“Per uno scrittore è meglio apprendere la verità e scriverne o è meglio tentare di fare la verità scrivendo?”
Viverla facendo a botte con l’etica e la coerenza o recuperarla esanime per venderla liofilizzata in busta o in bomboletta spray al lettore?
Tracciare i confini tra Davide Bregola e Giovanni Costa è esercizio inutile, buono come ultima domanda in caso di presentazione fiacca in qualche biblioteca di provincia. Davide Bregola confina a nord con un moderato disincanto, a est con un’indignazione prossima all’incazzo, a ovest con un profondo disgusto e a sud con una sana curiosità e un’onesta voglia di aggiungere qualcosa di nuovo e importante nella letteratura italiana. Le sue coste frastagliate sono battute da venti malsani e bagnate da mari inquinati e tempestosi.
Ti spiazza quando racconta con finta ingenuità che riesce a scrivere/descrivere solo fatti realmente successi nella sua vita. Candidamente ammette che un vero scrittore deve sapere fare altro. Il suo amico burattinaio costruisce pupazzi e fioriscono favole, lui si impantana tra vissuto e surrogato letterario, una medicina il cui foglietto illustrativo è meglio non leggere e bruciare. Tali e tante sono le controindicazioni e gli effetti indesiderati descritti. Eppure le pagine anche se dolenti filano a meraviglia e giunto in fondo ti prende la fantasia di rileggerlo da capo. A ciclo continuo.
Il lavoro di Bregola non si esaurisce in questo romanzo, di cui alcuni estratti sono presenti in rete. Bregola acquisisce materiale, carte processuali, mette agli atti prese di posizione, trame, indaga, cataloga reperti lasciati da altri narratori, lo fa su Vibrisse,
lo fa semplicemente guardandoti negli occhi, ma solo per pochi secondi. Poi distoglie lo sguardo come se pesasse mentalmente le reazioni e le congetture di chi gli sta davanti a parlare di letteratura e di altri vitali dettagli.
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