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Questo era il giardino
Sergio Rotino, Fernandel, 30.06.2005
Intervista a Giulio Mozzi raccolta da Sergio Rotino
Chi non conosce Giulio Mozzi e la sua infaticabile attività di scrittore, critico, talent scout ecc., alzi la mano. È praticamente impossibile, se ci si occupa a qualsivoglia titolo di narrativa (anche, ma meno, di poesia) italiana, non aver incrociato almeno una volta questo narratore padovano o non aver letto uno degli otto racconti presenti in Questo è il giardino. Quell’esordio del 1993, pubblicato da Theoria, poi ristampato da Mondadori nel 1998 (con alcuni ritocchi a F., il testo di chiusura della raccolta), è diventato la pietra di paragone per una certa narrativa italiana che ha preso corpo negli anni successivi – definita come “bianca” da Barilli, in contrapposizione alla “nera” dei “cannibali” – e dato maggiore visibilità, oltre che maggior credito al successivo lavoro del suo autore. Oggi Questo è il giardino è approdato in Sironi (121 pagine, 13,50 euro) per la terza stampa. Per Mozzi è un esplicito tirare le somme di dodici anni di attività in campo letterario, del valore dei circa dieci libri (narrativa, poesia, saggistica) pubblicati, un chiudere idealmente il cerchio di un discorso stilistico e personale parallelamente alla consegna presso Mondadori delle duecento cartelle che formano il suo primo romanzo. Per questo abbiamo chiesto a Giulio Mozzi di guardare indietro, a quel 1993, anno in cui ha dato alle stampe le sue prime “parole private, dette in pubblico”.

Nel 1993 esce Questo il giardino, seguito a breve dagli esordi di Roberto Ferrucci, Romolo Bugaro e Angelo Ferracuti. Tu per Theoria, loro per Transeuropa: un romanzo e tre raccolte di racconti. A vederli dodici anni dopo, quei libri dipingono l’allora giovane narrativa italiana come un condominio semideserto. Tondelli ne aveva aperto le porte, ma in quelle stanze c’era ancora molto spazio per tentare l’intentato, per scrivere senza preconcetti e (auto)censure, senza sgomitare. È una visione che si avvicina abbastanza alla realtà dell’epoca?
Sì, è una visione che si avvicina alla realtà di quegli anni. Sono d’accordo. Il cambiamento è avvenuto nel 1998, con il cancan attorno a Gioventù cannibale. A partire da quel momento il condominio si è affollato. E questo non è certo stato un male. Anche se la formula che girava (“i giovani scrittori”) era odiosa. Nel 2001/2002 c’è stata un’altra giravolta: i “giovani scrittori” hanno smesso di interessare, e si è aperto il tiro al bersaglio. Nel 1993 era ancora facile esordire. Non ti veniva chiesto niente. Ti veniva chiesto di proporre un libro abbastanza interessante, abbastanza bello. Non ti veniva chiesto di proporre un libro che vendesse chissà che (quando, poco prima che Questo è il giardino uscisse, domandai a Paolo Repetti, allora direttore editoriale di Theoria, quante copie pensava di venderne, lui mi rispose: «Se va bene, 600». Oggi, se a una casa editrice paragonabile a Theoria proponi un esordiente da 600 copie, quelli ti fanno le smorfie. Anche, voglio dire, la casa editrice per la quale lavoro).

Oggi la forbice degli esordi sembra si stia chiudendo, però escono moltissimi narratori italiani, ma pochi arrivano al secondo romanzo. Pensi che siano cambiate le prospettive di attesa o è un problema di voci che, rispetto alle vostre di esordienti del ’93, hanno sempre meno capacità di incidere e restare?
È una questione di numeri: se non vendi tanto subito, sei fottuto. Ed è una questione di critica: ci sono singoli critici che si accorgono di singoli valori messi in campo, non c'è una “comunità di critici” che riesca ad accorgersi di una “comunità di valori”. A me sembra pazzesco, per esempio, che in questo momento non ci sia nella critica italiana una discussione, un’elaborazione teorica (magari una condanna a morte, eh!) di quella “new thing” rappresentata da romanzi come City di Baricco, Residui di Massaron, Il suicidio di Angela B. di Casadei, La macinatrice di Parente, Neuropa di Gigliozzi, Perceber di Colombati. E non lo dico – ti prego di credermi – perché due dei libri che ho elencati li ha pubblicati Sironi.

In maniera secca: quali erano le tue aspettative come giovane autore con l’uscita di Questo è il giardino? Soprattutto per l’entusiasmo con cui ti aveva sponsorizzato (e scusami il termine “cafone”) Lodoli.
Come “giovane autore”, non avevo nessuna aspettativa. Non ero un “giovane” (avevo 33 anni), non ero un “autore” (nel senso che non avevo un progetto autoriale su di me). Mi preoccupava il fatto che un editore avesse investiti su di me dei soldi: e desideravo che non avesse a pentirsi di questo investimento. Per questa ragione mi diedi da fare abbastanza per la promozione, facendo quello che potevo. Andai ovunque.

Ma almeno immaginavi l’attenzione che la critica ha avuto verso il tuo esordio.
No, non me l’aspettavo. Non mi aspettavo niente, capisci?

Per i tuoi libri successivi sei passato da Theoria a Einaudi-Mondadori. Era un approdo naturale o neccessario? Voglio dire, c’era in te il bisogno di una maggiore sicurezza nella comunicazione dei tuoi lavori verso un possibile pubblico, oppure è stato un incrocio di fortune e sfortune (interessamento della casa editrice vs. chiusura della casa editrice)?
Il mio secondo libro, La felicità terrena, fu venduto da Theoria, che era in profondissima crisi economica, a Einaudi, che lo pagò quindici milioni di lire (a Theoria). Il mio ruolo nella vicenda fu semplicemente quello di dire, a Beniamino Vignola di Theoria che mi telefonò per chiedermi un assenso: «Sì».

Oggi, nella bandella di Questo è il giardino, scrivi che alcuni autori vengono ricordati come gli autori di un unico libro, nel tuo caso per il libro d’esordio. Non ti sembra in questo modo di svilire il senso della tua scrittura e del lavoro sulla scrittura fatto successivamente?
Mi sembra di constatare un dato di fatto.

Non ti sembra anche di avallare inconsciamente la vulgata per cui la maggioranza degli autori dà il meglio di sé nell’esordio?
Mi sembra di avallarla, ‘altro che inconsciamente. So che si tratta di un’opinione in parte vera e in parte falsa. Gli scrittori come me, danno il meglio di sé nell’esordio. Altri hanno vicende diverse.

Cosa c’era prima degli otto racconti di Questo è il giardino: le attese de L’apprendista o la paura di ritrovarsi in un universo sconvolto dall’uscita del primo libro come in Per la pubblicazione del mio primo libro?
Ma, ti dirò: all’epoca lavoravo in una libreria, sapevo benissimo che un libro è un libro tra altri centomila. Così come non avevo particolari attese, non avevo particolari paure. Le attese e le paure racchiuse in quei due racconti, sono appunto racchiuse lì.

Ripubblicare l’esordio e in questo modo “fare un funerale a te stesso” come scrivi nella nota finale, proprio ora che hai consegnato all’editore Discorso intorno a un sentimento nascente – il tuo primo romanzo, che preferisci definire “una prosa”, è tirare le somme di dodici anni di attività, oppure è anche un gesto scaramantico?
Non è mia abitudine compiere gesti scaramantici: non credo alla scaramanzia. Sì, è un tirare le somme di dodici anni di attività. Non mi pare poco. Non mi pare che, per dare valore alla cosa, serva farne anche un gesto scaramantico.

Ora che ci penso, solo Ferrucci ha ripubblicato il suo romanzo d’esordio. Tre volte, come per Questo è il giardino, una anche con Fernandel. Ecco, non pensi sarebbe ora di ristampare almeno i romanzi d’esordio più interessanti – e oramai introvabili anche sulle bancarelle – usciti in Italia attorno alla metà degli anni Novanta?
In realtà, Indianapolis di Bugaro è stato ripubblicato per Theoria con il titolo Indianapolis e altri racconti (questo titolo si giustifica perché Romolo ha aggiunto qualche altro racconto al corpus originale) nel 1999. Quanto al ristampare almeno i romanzi più interessanti eccetera: mi inviti a nozze. Quando cominciamo?
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Testo riprodotto unicamente a scopo informativo.

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