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Magliani, quel «noir» di confine |
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Fulvio Panzeri, l'Avvenire, 03.08.2006 |
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È decisamente una scoperta e una sorpresa il primo romanzo che Marino Magliani pubblica da un editore importante. Si intitola Quattro giorni per non morire (Sironi, pagine 158, euro 12,90) e ci impone la voce di uno scrittore vero, autentico che si muove sulla linea di altri grandi autori liguri, tra i quali lo stesso Giuseppe Conte, ma soprattutto l'amatissimo Francesco Biamonti, di cui troviamo tracce e omaggi nascosti tra le righe di questa storia che è troppo facile (e conveniente) definire «noir». Magliani è scrittore di «confine» in senso autentico come lo era Biamonti, anche se quest'ultimo è più lirico, più di dimensione metafisica. Per entrambi, però, la Liguria al confine con la Provenza è una metafora che porta incisi i segni di una incertezza esistenziale, di un abisso sul quale affacciarsi per affrontare l'idea della morte, attraverso uomini che dalla morte sono inseguiti, che cercano di non soccombere a quest'ombra che vanifica la luce di vita, quella luce che nel paesaggio ligure e nella scrittura di Magliani diventano forma di una interrogazione dell'esistenza.
Il «nero» che troviamo in questa storia è tutto nel cuore dei protagonisti, nel loro abbandono e nella loro disperata possibilità di ritornare. Rimane negli occhi la figura di Gregorio, detto il Colibrì, che dopo un'avventura sbagliata in Sudamerica, dove ha lasciato l'amico archeologo, Leo, forse scomparso in un carcere cileno, dove ha contratto una malattia tropicale, una rara forma di malaria, ritorna in Italia e a Roma finisce in carcere per traffico di cocaina. Da Regina Coeli può tornare al vecchio paese, a Fontanelle, in una delle valli liguri della zona tra Imperia e Ventimiglia, quattro giorni per andare al funerale della madre. Sono i «quattro giorni» di cui parla il titolo che rappresentano anche lo spazio temporale ristretto in cui si svolge il romanzo, ma che Magliani ha la forza di dilatare a ricognizione di un'intera esistenza, con la morte che insegue, con il bisogno di fuga per andare finalmente a farsi curare dalla malattia. Ci sono i ricordi, ma soprattutto c'è questa riflessione sul paesaggio ligure, sull'ancestrale tema della terra che è rimasta negli occhi e sulle mani, quasi riflesso delle distese d'ulivi che hanno segnato l'infanzia.
Magliani da anni vive in Olanda, dove ha moglie e figli, ma ha connaturato in sé questa dimensione della Liguria, delle sue valli dove si misura il peso del mondo e della propria solitudine, dei suoi paesi, come Fontanelle che fa da sfondo alla storia, e identificato da «una chiesa dai muri color di terra, pieni di buchi da cui a ogni ora di campana scappava un volo di piccioni. Un nodo di portici e loggiati e un punto della scalinata da cui partivano quaranta case del sedicesimo secolo, attaccate una all'altra per risparmiare le pietre di trentanove muri». La scrittura secca e essenziale di Magliani incide il racconto come il vento sulle rocce, quelle stesse che stanno sopra il paese, appese al cielo che «imbrunivano l'aria, rocce affioranti dalle terrazze e immobili come un volo di colibrì sul fiore». |
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