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Alberto Garlini - Una timida santita' |
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Andrea Bajani, Fernandel, 15.02.2003 |
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Alberto Garlini ha trentatré anni, vive in Friuli Venezia Giulia e ha scritto uno dei romanzi più belli finiti in libreria nell'ultimo anno. Si intitola Una timida santità, ed è la cronistoria disarmante e tenerissima della morte di una donna e della successiva resurrezione nella mente del narratore. Lui si chiama Alberto, come l'autore del romanzo, e lei Tina. Lui è il nipote e lei la nonna che lentamente e quasi sbadatamente se ne sta andando all'altro mondo. Con una penna morbidissima, Garlini disegna i contorni di quella morte e del suo stesso satellitare con pazienza e triste attesa intorno alla figura della nonna, alle sue sbandate folli, al suo dolcissimo essere sempre accanto alle cose, sempre lontanamente parallela. Garlini, come solo i veri scrittori sanno fare, affronta la morte di petto, racconta il lutto e finisce per commuoversi, di fronte all'aldilà. Forse vorrebbe un riscatto, di fronte all'ultimo passo, ma quello che raccoglie è un bellissimo grumo di dolore e parole (“Andavamo al funerale della Tina, la mia nonna, lei che non vedeva niente e io che credevo di vedere tutto, ed eravamo la stessa cosa dolorosa”). Lo sguardo di Garlini è quello incantato dell'innamorato, o del padre, che assiste alla realtà come a una sommatoria sentimentale di miracoli. Così gli passa accanto l'ultima frangia di vita della nonna, e il suo immediato passato, con giorni fatti solo con sei lettere e altri in cui il sentimento ha gonfiato l'anzianità di palpiti giovanili (“Gli anziani si innamorano come i ragazzi nelle gite scolastiche, hanno gli stessi palpiti, sognano cose simili alla gioia: soprattutto quando sono quasi vergini, come mia zia a settantasei anni”).
La morte si porta via tutto, poi. Tranne gli oggetti, che rimangono nella casa e fare un presepio senza Gesù bambino, troppo presto o troppo tardi rispetto alla vita. Tra quei resti Alberto la fa rinascere, la nonna, respirandone ancora per un po’ gli stessi odori di casa. È il riscatto della vita, la parola che non getta mai la spugna, nemmeno di fronte al dolore. |
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