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Dalla Liguria alle Ande, per non morire |
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Bruno Quaranta, TTL La Stampa, 06.05.2006 |
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I "Quattro giorni" di Marino Magliani: due amici, due mondi gemellati sin dall'età del rame, un inesauribile omaggio alla poesia di Biamonti |
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Non ancora sfumata la «stendhaliana » Estate dopo Marengo, Marino Magliani invoca Quattro giorni per non morire. Con l’imprimatur di Dario Voltolini (ma occorreva?, la landolfiana bandella intonsa non sarà mai abbastanza rimpianta, al lettore si va, si dovrebbe andare, in perfetta solitudine) e spargendo, nell’opera, un grazie inesauribile a Francesco Biamonti, a un poema in prosa soprattutto dello scrittore di San Biagio della Cima, Attesa sul mare.
Dall’Ottocento ai nostri giorni, inquieti, randagi, picareschi. Dalla Liguria alle Ande e dintorni. Due amici, Gregorio e Leo, inseguono la prova che il nostrano Ponente e l’America Latina non sono così estranei l’uno all’altra. Anzi: nei tempi remoti parlavano (avrebbero parlato) la stessa lingua.
In Val Prino, nella Tana delle Rane, scoprono «il disegno delle bestie» risalente all’Età del Rame. «Qualcosa che ci assomigliava molto» era stato rinvenuto - un libro americano avverte - «su un drappo funebre guatemalteco, nella valle di Algorrabla, nel Perù meridionale e in un cimitero di Chauchilla».
L’avventura comincia. Di peripezia in peripezia, di vecchio stregone in gigantesca febbre, di cartina segreta in scheletro, cercando l’anello di congiunzione.
Leo non tornerà, forse ucciso, una raffica a suggellare il disinvolto andar (scavar) di tomba in tomba (o lo condannò l’aver scoperto un traffico di gioielli precolombiani?).
Gregorio ce la farà, invece, a raggiungere Roma, salvo finire a Regina Coeli, tale e tanta la cocaina che lo grava, e non solo. A socchiudergli la porta della cella sarà la morte della madre. Quattro giorni ha davanti a sé. Il tempo di raggiungere Fontanelle, in Liguria, «una chiesa dai muri color della terra, pieni di buchi da cui a ogni ora di campana scappava un volo di piccioni». Il funerale. Il fratello Gilberto, avvoltolato in un ancestrale riserbo. L’eredità da dividere. Lori, una donna nel cuore (nelle viscere) mai avvizzita. Le antiche stagioni, «in cui gli ulivi tenevano il frutto fino alla Pentecoste », un richiamo sempre nitido. I remoti vagabondaggi in Provenza con Gregorio. Una malefatta non sbiadita.
Quattro giorni alle fonti di un’energia necessaria per non morire. Un’infezione tropicale rosica Gregorio. A Città del Messico è il medico che può arginarla, se non guarirla. Il maresciallo dei carabinieri, ostinato, epperò non pedante (come la «divisa» di Mario Soldati), scruta il detenuto in libertà vigilata che medita la fuga. Chissà se, una volta ammanettato, il novello passeur troverà (trovò) conforto nel Rimbaud carissimo a Biamonti: «La vera vita è assente, noi non siamo al mondo»?
Biamonti, la voce che signoreggia nei Quattro giorni, il fantasma non ancora fantasma («Gli dispiaceva di non aver messo nel sacco di Gilberto i romanzi della luce ligure, forse perché aveva saputo che l’autore era molto malato anche lui e avrebbe voluto conoscerlo, vedere le fronde dei suoi ulivi che assomigliavano a polverose ali di farfalla»).
Biamonti, ovvero la scabra Liguria dispiegata verso i maestrali di Francia.
Il viaggio oltreoceano è un’occasione che Marino Magliani ad hoc architetta per non lasciare la sua terra, arandone atmosfere, caratteri, palpiti, ad essa tutto riconducendo («La rassegnazione andina così simile alla rassegnazione che si leggeva negli occhi dei liguri»). Ogni parola affilata, gelosamente accudita, meticolosamente offerta. Passo dopo passo lungo i sentieri di un mondo scomparso, che, ritrovato, non dovrà scomparire mai più. «Gettò un ultimo sguardo sull’Italia, c’erano uliveti, orti tra lo spoglio e il verdeggiante, orti di marzo e rocce d’arenaria. Erano gli affetti dello scrittore di confine». Qui la sfida che Marino Magliani si cuce inesorabilmente addosso: nell’angelo di Avrigue identificare «un volto ch’era al di là di qualcosa... avviato alla pietra». |
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