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Vivere da precario in lotta con il tempo |
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Arturo Zilli, Corriere Alto Adige, 04.02.2006 |
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Romanzo «generazionale» pubblicato da Sironi
Convincente esordio di Accardo
LA PRESENTAZIONE
Martedì sera letture e musica all’Upad
Ci sarà Mozzi
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Chi volesse capire l’esistenza di un trentenne precario e senza prospettive nell’Italia degli ultimi dieci anni, dovrebbe leggere il romanzo «Un anno di corsa» dello scrittore siculo-bolzanino. Giovanni Accardo, pubblicato per Sironi Editore, nella collana «Indicativo presente». La scrittura precisa e tagliente di Accardo vale infatti più di decine di saggi socio-psicologici per documentare i malesseri che affliggono l’accidenta- ta contemporaneità dell’«uomo flessibi- le». Ambientato un po’ in giro per l’Ita- lia, «Un anno di corsa» è il racconto di un anno di vita di un giovane siciliano, trentenne e laureato in Lettere, alla disperata ricerca di un lavoro che non arriva mai. Il protagonista – significativamente sprovvisto di un nome – vive a Padova, dove condivide, con grande insofferenza, i trentadue metri quadrati del suo appartamento con un coetaneo leghista. La rincorsa al sospirato impiego si snoda tra mortificanti lavori a gionata e colloqui demenziali con i sacerdoti della parola manipolata: i «cacciatori di teste» aziendali, sempre pronti, con il loro inossidabile sorriso, a selezionare le cavie umane che vengono date loro in pasto. La ricerca di lavoro del protagonista è soprattutto la ricerca d’identità da parte di un ormai ex-giovane che, privo di conoscenze importanti, si vede negati - oltre alla possibilità di costruirsi un futuro degno della fatica spesa per arrivare alla laurea - anche il conforto e la solidarietà da parte chi gli sta intorno, ritrovandosi da solo a combattere contro la mancanza di senso della sua esistenza, sottolineata dalla marea di stupidità eruttata di continuo dalla televisione ed il quotidiano razzismo ascoltato nei bar di Padova. Accardo, insegnante e direttore della scuola di scrittura creativa dell’Upad, è al suo primo romanzo. Martedì alle ore 20.45, nell’aula magna dell’Upad, si terrà la presentazione del romanzo, con letture e musica e con gli interventi dello stesso Accardo e Giulio Mozzi.
Accardo, com’è nato e quanto tempo ha impiegato la stesura di «Un anno di corsa»?
«La gestazione diciamo che stata abbastanza lunga. Il romanzo è nato sviluppando un mio racconto di qualche anno fa, che avevo sottoposto alla lettura di Carmine Abate. Fu lui a dirmi che intravedeva nel mio racconto i germi di una storia più ampia. È una storia su cui ho lavorato molto, perché la sentivo crescere, ne sentivo fortemente la tematica e la componente ideologica che era quella di raccontare il disagio esistenziale di chi cerca di dare dignità ad una laurea conquistata con fatica».
Ci sono state più stesure?
«Sì, cinque per l’esattezza. Ho avuto la fortuna di avere dei lettori d’eccezione come Antonella Cilento e Giulio Mozzi, oltre all’aiuto fondamentale di mia moglie».
Nelle note finali scrive: «sarebbe vano cercare nel romanzo somiglianze e corrispondenze con la vita reale». Questo però è vero fino a un certo punto perché «Un anno di corsa» riesce anche a dare corpo a alle frustrazioni e delusioni di una generazione.
«I luoghi sono certamente reali. Padova, Milano, Torino, la Sicilia sono i poli geografici tra i quali si muovono i personaggi che sono però tutti frutto della mia fantasia, così come le avventure del protagonista. Detto ciò, devo anche affermare che ho inteso ambientare la storia in un contesto e in un’epoca ben precisi. Ho voluto scrivere un romanzo sulla contemporaneità, tant’è che i riferimenti non mancano come ad esempio il raduno dei leghisti sul Po, oppure le trasmissioni tele-visive tipiche degli utlimi dieci, quindici anni. Il protagonista è un personaggio eccessivo, che vive un triplice spaesamento: esistenziale, geografico – metà padovano e metà siciliano, non è e non riesce a sentirsi integrato in nessuna delle due realtà – e linguistico. Le parole della televisione e dei selezionatori aziendali sono il latinorum, cioè parole che nascono per ingannare e per fingere».
Il protagonista è uno sconfitto, impossibilitato a trovare la solidarietà persino delle persone che potrebbero condividerne l’ideologia e la cui solitudine non è certo alleviata dai veloci rapporti consumati con le ragazze che incontra. Concorda che il romanzo è segnato dal pessimismo?
«Direi di no. Il finale, per certi versi, è aperto. Il personaggio che parte in treno da Padova è animato da un’inquietudine che lo porta a viaggiare su un treno che forse arriverà in ritardo oppure si perderà in qualche stazione: non si sa di preciso cosa avverrà. Però non vuole accettare le cose come stanno, l’ha dimostrato nel corso della narrazione e quindi il futuro è aperto».
«Un anno di corsa» è un romanzo che parla a tutta l’Italia, che può far scattare meccanismi di riconoscimento indipendentemente dalle latitudini a cui lo si legge. I riferimenti geografici e storici, pur essendo molto definiti, diventano « universali » . Questo è forse uno degli aspetti che rende il libro molto riuscito.
«E’ un libro che riguarda tante regioni, direttamente o indirettamente, per la provenienza dei personaggi che vi si muovono. Quella cosa che tanti chiamano “flessibilità” e che riassume il dramma e la frustrazione di un’esistenza precaria è un problema nazionale e la storia narrata può quindi una storia in cui si possono riconoscere tanti soprattutto al Sud, ora che l’emigrazione verso Nord per cercare lavoro è ricominciata».
Molto riuscita è la riproposizione de lessico stereotipato e nauseante dei selezionatori e formatori aziendali.
«Sì, ho letto molti articoli e manuali su come cercare lavoro, su come comportarsi ad un colloquio o su come chiedere informazioni ad un candidato e poi ho sceneggiato queste informazioni».
Lei è anche insegnante nella scuola superiore. Molti di questi metodi e di queste tecniche comunicative si stanno impadronendo anche della scuola o no?
«Sì, purtroppo la scuola non è più vista come luogo d’istruzione perché l’istruzione è diventata una merce. Si sono inventati i crediti, che pensavo esistessero solo in banca e si parla degli studenti come dei clienti dell’insegnante. Ma il modello aziendale che è un modello di produzione non va bene per formare degli adolescenti che devono crescere come esseri umani».
E di scuola in scuola: come sta andando «Le scimmie», la scuola di scrittura creativa dell’Upad?
«Al contrario dei corsi seguito dal protagonista del mio romanzo “Le scimmie” non promette nulla. Un nostro ex-allievo, Sandro Ottoni ha vinto il premio “Alto Adige – Autori da scoprire” e altri hanno pubblicato su riviste e antologie. E’ una palestra per persone appassionate di letteratura che, senza inganni, vogliono leggere e discutere di ciò che scrivono assieme a persone che possono aiutarle a sviluppare le loro idee senza indottrinamenti».
Arturo Zilli
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