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Come un atomo sulla bilancia |
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Giovanni Choukhadarian, L'indice dei libri del mese, 15.01.2006 |
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Il nuovo romanzo di don Luisito Bianchi è uscito, in prima edizione, 33 anni fa, come resoconto della sua vita di fabbrica. Editore la Morcelliana di Brescia, identico il titolo (mediocre traduzione modernista di un celebre versetto tratto dal libro della Sapienza: non come un atomo ma come polvere sulla bilancia è il mondo, con tanto di nesso intertestuale al Deuteroisaia letto e citato dal vecchio Montale). Nell’edizione Sironi, all’originale si aggiungono documenti indispensabili alla migliore intelligenza dell’opera. C’è un ampio saggio di don Maurilio Guasco, uscito sulla rivista Humanitas che colloca il libro in una piccola ma importante tradizione socioletteraria francese, poi l’affettuosa risposta di don Bianchi, infine una Ballata della tangenziale in cui il prete si cimenta con un verso un po’ à la Pagliarani. Luisito Bianchi tiene però a denotare in modo chiaro il suo lavoro. Non faccio dunque teorie, ma racconto semplicemente: così nella presentazione alla prima edizione, e questo rimane il distintivo stilistico di tutto il libro. Redatta in tre mesi, la Storia di tre anni di fabbrica è appunto questo: una storia, costruita con un buona padronanza narrativa e articolata in modo piuttosto trasparente. Nella prima parte, il religioso consacrato don Luisito Bianchi, assunto in qualità di operaio, confronta le due funzioni e fa l’autocoscienza inevitabile: sono certo di non essermi mai autodefinito, in questi tre anni di fabbrica, prete-operaio. Adesso che scrivo questo binomio, provo un certo disagio, quasi ponessi sulle natiche spelacchiate dei topi notturni una gualdrappa d’oro. Non che una soltanto confessione fatta al pubblico dei lettori, è anche la dichiarazione più netta del motore mobile di queste pagine: il sentimento della gratuità, che è quello di San Paolo nella prima lettera ai Corinzi. L’agàpe, più forte della fede e della speranza, che diviene virtù laica in quanto è tradotta da Luisito Bianchi nell’ascolto dei suoi compagni di fabbrica, nella domanda incessante sul suo ruolo all’interno di un universo così lontano da quello di provenienza; e intanto così sorprendente. Scrive infatti quasi al principio del sesto capitolo: nei tre anni di fabbrica scopersi infatti la speranza (...) Ho il grande desiderio di scoprire ancora qualche cosa l’ultimo giorno della mia vita, prevedendo il rimpianto che avrò nel lasciare indietro molte cose da scoprire. Se uno scopre la speranza, non può disperare. Se questo libro ha avuto a suo tempo e ha ora, con la ristampa, il senso di un bilancio, l’impressione è che l’autore creda di avere in tanto dato in quanto ha ricevuto: all’insegna, appunto, della gratuità. Confessione e bilancio, quindi, ma anche romanzo? Anche, ma insieme diario, con intermezzi in corsivo che sono una riflessione a volte di caratura quasi teologica, ma si leggono talora anche come ripensamenti metanarrativi imprevedibili in un narratore non professionale (spiccano, per esempio, pagine notevoli sul Don Qujote, che l’autore scopre e legge in fabbrica, riportandone frasi in spagnolo. Lo leggeva nel non agevolissimo originale? ). La fine dell’esperienza operaia è un bilancio in consapevole, sebbene forse non drammatico passivo che, riprendendo il titolo del saggio di Guasco, conferma l’impossibilità di evangelizzare la fabbrica e, in senso generale, il mondo del lavoro. Ma non qui risiede l’utilità e, si sarebbe tentati di aggiungere, la necessità di ristampare, opportunamente dotato degli apparati descritti, Come un atomo sulla bilancia. Questo libro, fra i molti altri scritti da Luisito Bianchi, è una testimonianza in corpore vili della fabbrica, entità sociale oggi scomparsa nelle forme fordiste che il prete-operaio descrive in ogni dettaglio e tuttavia persistente, con modi, linguaggi e alienazioni diverse. Don Bianchi non si muove da sociologo del lavoro e, per continuare il paradosso, nemmeno è influenzato dalla critica dell’economia fordista condotta in quegli stessi anni da Mario Tronti: il suo è il racconto di un’esperienza di lavoro, ben altro da un’indagine sistematica. Non di meno e anzi forse proprio per questo, l’universo concentrazionario che descrive e i suoi protagonisti con nomi da apostoli (Andrea, Giovanni, Luca...) sono degni di memoria: essi ricordano infatti che è esistita in Italia una chiesa cattolica non sempre affine alla Chiesa che predica il Vaticano II – attore invisibile, ma nemmeno tanto di queste pagine – e si muove con disinvolture degne a volte del Lateranense V. |
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