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Un romanzo di fantapolitica anticipatore di un genere |
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Turi Vasile, Quaderni radicali, 14.12.2005 |
www.quaderniradicali.it |
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È proprio vero che non si può stare tranquilli; con credulità degna di miglior causa per mesi mi sono lasciato suggestionare da quanti segnalavano il più importante e significativo romanzo del secolo appena trascorso. Ne ho scelti quattro; li ho letti tutti e ogni volta sono rimasto deluso, salvo che per il libro di Raffaele La Capria che proprio un romanzo non è.
La lettura più piacevole, invece, la debbo ad un’opera, sempre del Novecento, ultimi anni Venti. Non è affatto un capolavoro, ma è così divertente e interessante da potersi considerare espressione emblematica della narrativa italiana del tempo del fascismo, senza che ne abbia la fastidiosa retorica. Anzi, qua e là induce a sospettare un sottofondo di ironia parodistica.
È stato Luigi Mascheroni con un interessante articolo su “Il Giornale” ad accendere la mia curiosità.
Il romanzo si intitola “Lo zar non è morto” ed è stato rieditato da poco da Sironi Editore. L’autore non è uno, né due, bensì dieci. Ecco i nomi: Antonio Beltramelli, Massimo Bontempelli, Lucio d’Ambra, Alessandro De Stefani, Filippo Tommaso Marinetti, Fausto Maria Martini, Guido Milanesi, Alessandro Varaldo, Cesare Giulio Viola e Luciano Zuccoli. A prima vista si direbbe che siamo un presenza di una raccolta di racconti, presumibilmente dieci. Niente affatto: si tratta di un’opera unitaria scritta a venti mani, non un capitolo ogni paia di mani, ma col concorso di tutte e venti, magari divise a gruppi. Una scrittura collettiva, insomma.
Degli autori ho conosciuto personalmente Massimo Bontempelli e con Alessandro De Stefani e Cesare Giulio Viola ho avuto una vera e propria frequentazione. Del primo ho apprezzato molto la sua commedia “Il calzolaio di Messina”; del secondo il romanzo “Pricò” che nel 1924 fornì il soggetto al film di De Sica “I bambini ci guardano”, indicato fra i progenitori del neorealismo cinematografico. E’ sorprendente come nessuno dei due mi abbia mai parlato di questo singolare esperimento che metteva insieme scrittori così diversi per temperamento e per stile – basti pensare allo spazio siderale che divideva il futurista Marinetti dall’intimista Fausto Maria Martini. Evidentemente univa tutti, prodigiosamente, il genere ancora intentato della narrativa fantapolitica.
La sorprendente impresa doveva restare del tutto ignorata se nel novembre del 2004 Giulio Mozzi non avesse frugato fra libri di antiquariato e non ne avesse estratto un volume malridotto, tenuto insieme da una nastro adesivo, edito da Dieci-Sapientia nel 1929 (VII dell’Era Fascista). Il titolo era appunto “Lo Zar non è morto”, sottotitolo “Grande romanzo di avventura”; autori i dieci che ho già elencato.
Mozzi lo sfoglia, ne legge alcune pagine; lo acquista senza esitare per poco più di cento euro.
Domanda in giro se qualcuno conosca l’esistenza di quel malconcio cimelio, solo un paio di studiosi ammettono di averne sentito parlare, un altro ne ha in biblioteca un esemplare ma non l’ha mai letto.
Così, un anno dopo la riesumazione, ho potuto leggere l’affascinante storia di Nicola II, ultimo Zar di tutte le Russie, sfuggito avventurosamente all’eccidio di Ekaterinburg, dove fu massacrata tutta la sua famiglia. Ritrovavo finalmente in quel romanzo il gusto autentico della narrazione, così raro nel nostro Paese dove abbondano invece gli scrittori e i prosatori d’arte.
Cominciai a leggerlo e non me ne staccai più, tranne che per le inderogabili incombenze quotidiane perché subito tornavo ad esso, affascinato dal racconto incalzante senza soste e godendo della lingua veloce ed elegante che mi ricordava la stile di Pitigrilli.
Il romanzo candidato all’oblio rappresentava con anticipo di decenni il genere di largo consumo come quello de “Il Codice da Vinci”, tanto per intenderci.
Per me personalmente precorreva in particolare la fantapolitica di Morris West, lo scrittore cattolico australiano che io conobbi e frequentai piacevolmente qui a Roma negli Anni Sessanta perché tentavo, invano, di portare sullo schermo il suo capolavoro “L’avvocato del diavolo”, ambientato in Calabria.
West ha scritto fantastorie diffuse in tutto il mondo, in parecchie di esse era implicato il Vaticano in vicende anche romanzesche, sempre rispettose. In ogni modo egli è stato il profeta del Papa venuto dall’Est con il suo romanzo “The Shoes of the Fisherman” (“Le scarpe del pescatore”), uscito in Italia con l’insipido titolo “Nei panni di Pietro”.
Mentre leggevo avidamente “Lo Zar non è morto” non mi domandavo se si avvertisse la presenza di tante mani nella scrittura; soltanto dopo ho tentato di esaminare il problema ed ho concluso che effettivamente in alcune parti, soprattutto a metà della storia, qualche contrasto di stile si avverte, ma è poca cosa travolta dalla corrente impetuosa del racconto.
Lo Zar, dunque, presumibilmente non è morto; voci dicono che si nasconda in Manciuria. Si scatena un intrigo internazionale: Cina, URSS, Inghilterra, Francia e Italia fascista si ingegnano con tutti i mezzi per scovarlo e per servirsene, ciascuno a proprio vantaggio. Inghilterra, Francia ed Italia perché sperano di restaurare, con lo Zar vivo, il regime imperiale e comunque anticomunista in Russia, ognuno sperando però di potersene attribuire il vanto; Cina ed URSS legati, ante litteram, per poterlo sopprimere la seconda volta... Domina la scena l’eterno fascino della Donna, impersonato dalla bellissima e contraddittoria Oceania World, amante irresistibile che porta scompiglio nei vari campi ma concedendo con sincero trasporto le sue grazie solo, naturalmente, ad un giovane ufficiale della Marina fascista italiana.
Lo Zar, detto il Vegliardo della Manciuria, passa di mano in mano ma si difende con un enigmatico silenzio tenuto fino alla fine.
Nelle pagine di questo romanzo risorto si avvicendano senza sosta inseguimenti, rapimenti, fughe, torbidi amori, sparatorie, crociere di navi e voli di aerei transoceanici; l’azione corre fra Pechino, Istanbul, Losanna, Parigi, Enghien, Roma e praticamente si conclude in Vaticano, con l’ultimo spettacolare colpo di scena; e ti lascia francamente dispiaciuto che la divertente girandola sia finita.
A parte queste sensazioni un po’ a fior di pelle, “Lo Zar non è morto” è un’opera che merita un riesame più approfondito, letterariamente, storicamente e come prezioso contributo alla rigorosa comprensione del costume del secolo appena dietro le nostre spalle.
In prima analisi, tuttavia, esso va raccomandato a coloro che hanno il gusto della narrazione e della favola. |
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