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Il libro ritrovato |
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Matteo Giancotti, Corriere del Veneto, 04.12.2005 |
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«Una sera a Padova passo davanti alla libreria Minerva con il preciso intento di superarla e di andare a bere uno spritz nel baretto poco più avanti. Vedo in vetrina libri futuristi, entro. Mi trovo in mano questo libro scritto da questi dieci farabutti. Tu cos’avresti fatto, non te lo saresti portato a casa?». Così Giulio Mozzi, scrittore e editor padovano, torna a parlare del ritrovamento de Lo zar non è morto: «grande romanzo d’avventure» scritto da dieci autori, tra cui Marinetti e Bontempelli, pubblicato nel 1929, dimenticato da tutti e ora alla ribalta delle cronache dopo la recentissima nuova edizione Sironi voluta da Mozzi (480 pp., 17 euro). Una storia uscita, prima che in volume, a puntate sul quotidiano «Il Lavoro d’Italia» (con annesso concorso per lettori); stilisticamente in tensione per gli apporti e il gusto dei diversi autori, fitta di colpi di scena, il primo dei quali anticipato dal titolo: lo Zar Nicola II, da tutti creduto morto, è sfuggito all’eccidio dei Bolscevichi ed è ancora vivo. Un romanzo di fantapolitica che doveva esprimere anche in letteratura, come scrisse il futurista Marinetti, la potenza della «grande Italia fascista».
Mozzi, tutti i giornali si sono precipitati sul “caso”. Se lo aspettava?
«Me lo auguravo. Ero consapevole del fatto che il libro aveva una serie di elementi che potevano destare curiosità da parte della stampa. Mi ha colpito il fatto che la “fascisticità” del romanzo non faccia problema per nessuno, non comprometta la serenità di giudizio: non so se questo sia da attribuire ai molti anni passati dal 1929 o a una specie di anestetizzazione generale. Mi auguro che la risposta esatta sia la prima».
Colpisce il caleidoscopio di ambientazioni: da Pechino al Vaticano a Istanbul con la sensazione, come dice un personaggio, di «credersi quasi in patria».
«Manca solo il McDonald’s… Sì, è un romanzo globale, in cui girano due anime diverse che potremmo definire una “McDonald’s” e una “Slow Food”, entrambe figlie della globalizzazione. Ma basta guardare le schede biografiche dei dieci autori per capire, per notare quanto fossero internazionali le loro esperienze. Era un cultura molto più internazionale di adesso: allora c’era vera circolazione di una classe colta che viaggiava, esplorava e scriveva. Si faceva il Grand Tour nel mondo, vedi gli scritti di Cecchi sul Messico, di Comisso su Cina e Giappone… Non a caso un settore molto fluido nell’editoria di quegli anni era quello dei libri di viaggi».
Il futurismo «è di moda» (Mozzi). Il futurismo è un’esperienza «colpevolmente rimossa» in Italia (Caliceti). Chi ha ragione?
«Entrambi. Il futurismo è di moda nel senso che l’antiquariato futurista ha raggiunto prezzi altissimi. E, come esperienza artistica, è stato recuperato dalle neoavanguardie. Ma c’è un aspetto del futurismo in parte trascurato o studiato male: voleva essere un movimento popolare, produrre letteratura popolare futurista. Lo «Zar» è insieme un libro letterariamente degno, geniale per marketing, e di consumo: rende potabili per la borghesia le invenzioni linguistiche d’inizio secolo. Estendendo una definizione di Gian Carlo Ferretti (che l’ha coniata per libri come Il nome della rosa), potremmo dire che si tratta di un “best seller di qualità”».
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