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I cattivi maestri di Cipputi |
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Giorgio Boatti, TTL La Stampa, 19.11.2005 |
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I teorici dell’«operaismo» nell’Italia fordista Anni 60, fra intuizioni «profetiche» e rivolta sociale
Testimonianze e documenti ripercorrono le esperienze di riviste e gruppi, da «Quaderni rossi» a «Potere operaio», le origini del più aspro conflitto sociale, la deriva nella violenza. Ma per capire com’era la vita in fabbrica forse servono di più le memorie di Luisito Bianchi, prete operaio alla Montecatini
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Una corazzata Potemkin è facile trovarla in una qualsiasi piazza Statuto. E il pope Gapon non è più e con lui abbiamo seppellito le sacre icone...»: era il settembre del 1964 quando Mario Tronti, su Classe Operaia che si definiva «mensile politico degli operai in lotta», si lanciava con la sua prosa immaginifica e barocca nella previsione di una stagione di conflittualità che sarebbe effettivamente fiorita di lì a qualche anno. E che avrebbe composto - a partire dal 1968 - il più prolungato e pervasivo ciclo di lotte registrato, nel corso del Novecento, in un Paese dell'Occidente industrializzato. In realtà erano stati pochi e sparuti gruppi a intuire il nuovo che stava dietro l'angolo; e, tra i pochi, i più avvertiti furono sicuramente i cosiddetti "operaisti" di cui Guido Borio, Francesca Pozzi e Gigi Roggero raccolgono le testimonianze nel loro interessante volume, pubblicato da Deriveapprodi, Gli operaisti. Autobiografie di cattivi maestri. Sono ventisei i personaggi - tutti di spicco, visto che si va da Romano Alquati a Nanni Balestrini, da Giairo Daghini a Mario Dalmaviva, da Romolo Gobbi a Toni Negri, da Franco Piperno a Vittorio Rieser e l'elenco ovviamente dovrebbe continuare - che raccontano, attraverso i loro percorsi intellettuali e politici, il prologo di una stagione che troppe ricostruzioni continuano a far iniziare con la primavera del 1968 e che invece cova i suoi prodromi già nei primi Anni Sessanta. Lo dimostrano i fatti di piazza Statuto, con la rabbiosa rivolta spontanea dei giovani operai Fiat che il 7 luglio del 1962, appunto in piazza Statuto a Torino, avevano assediato la sede della Uil, il sindacato che nella notte aveva siglato un accordo separato con la Fiat nel quadro della vertenza per il rinnovo contrattuale. Gi scontri con la polizia furono durissimi e si conclusero con oltre un centinaio di fermati a cui fecero seguito alcune decine di condanne, per direttissima. La direzione aziendale della Fiat e La Stampa puntarono il dito contro il Pci, ritenuto responsabile della rivolta. In realtà stavano venendo autonomamente alla ribalta, per la prima volta, quei giovani operai, in gran parte immigrati dal Sud, che Sergio Garavini, al tempo segretario provinciale della Cgil, dopo la sommossa, aveva sbrigativamente definito «teppisti» e «provocatori». In effetti quel momento costituirà una discriminante anche all'interno della stessa frammentata e composita galassia operaista che sotto la regia di Raniero Panzieri, scomparso prematuramente, aveva dato vita, in precedenza, all'esperienza breve ma densissima dei Quaderni rossi, baricentrata a Torino e innervata in altri nuclei operanti in diverse città. E se da una costola di Quaderni rossi nascerà Classe operaia altre voci, e giornali e gruppi, animeranno quegli anni nel corso dei quali implodono, con giovanile vitalità, scompaginate ma rilevanti esperienze sul fronte della ricerca sociale e antropologica (Danilo Dolci, Ernesto De Martino, Danilo Montaldi), del dibattito culturale, della sperimentazione letteraria (il Gruppo '63 che, attraverso Balestrini, darà vita alla rivista Quindici). Un pugno di anni divide la generazione dei "cattivi maestri", come recita il sottotitolo de Gli operaisti, da buona parte dei dirigenti e militanti di "Potere operaio" che Aldo Grandi fa parlare nel suo libro Insurrezione armata, appena pubblicato dalla Bur, e con cui continua la ricostruzione attorno al gruppo della sinistra extraparlamentare, già avviata nel volume La generazione degli anni perduti uscito da Einaudi nel 2003. Nelle ventotto testimonianze riportate nel libro di Grandi prendono la parola solo quattro dei "cattivi maestri" che parlano nel volume di DeriveApprodi e questo sparigliamento nelle testimonianze non deve avere origine solo nei diversi campi generazionali investiti dalla ricerca. Infatti tra le assenze spiccano quelle di Toni Negri e Franco Piperno, che pure nella vicenda di "Potere operaio" hanno avuto un ruolo fondamentale. In realtà, pur avendo sullo sfondo gli scenari politici e culturali dei primi Anni Sessanta, il libro di Grandi investe prevalentemente tutto il caso del "7 aprile", ovvero il procedimento giudiziario avviato da un magistrato padovano e con il quale si accusava la dirigenza di "Potere operaio" di «aver organizzato e diretto un'associazione denominata Brigate Rosse». Solo dopo molti processi, e uno scandaloso protrarsi di carcerazioni preventive che coinvolsero numerosi militanti, si stabilì che nessuno dei ventidue arrestati del 7 aprile 1979 aveva avuto a che fare con le Brigate Rosse. Mentre erano altri i gravi episodi - inseriti in una brutale stagione di conflittualità politica e sociale, in una progressiva e devastante deriva scandita da un ricorso sempre più incontrollato alla violenza - di cui si resero responsabili, come ammette con onestà intellettuale Oreste Scalzone, diversi settori ed esponenti di “Potere operaio”. Provoca un'impressione di vertiginoso spaesamento passare da questi scenari "operaisti" al racconto dispiegato da don Luisito Bianchi, autore di Come un atomo sulla bilancia. Storia di tre anni in fabbrica, della quotidiana vita di turnista, addetto alla lavorazione dell'ossido di titanio in uno stabilimento Montecatini. Nato nel 1927, attualmente capellano presso il monastero benedettino di Viboldone, Luisito Bianchi, già autore di un'indimenticabile epopea quale la Messa dell'uomo disarmato sempre pubblicata da Sironi, fa emergere dalla sua esperienza di fabbrica, affrontata tra il 1968 e il 1971, un libro di densissimo spessore umano e spirituale, su cui occorrerà tornare ogni volta che si vorrà comprendere cos'era il mondo del lavoro prima della scomparsa della fabbrica "fordista". Una scomparsa che non ha significato, come qualcuno ritiene, né l'estinzione del lavoro in fabbrica - sopravvissuto in forme diverse - né l'azzeramento delle mansioni faticose e stressanti, quelle che ormai sembrano scomparse anche dal nostro linguaggio quotidiano. Tanto che oggigiorno nessuno chiede più «Che lavoro fai?». Pudicamente, in quest'era dove tutti i lavori, anche i più penosi, sembrano essere diventati minuetti nell'immaterialità, si può giusto domandare: «Di che ti occupi?». |
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