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Lo Zar non è morto: è in Cina e lotta insieme “a noi” |
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Luca Mastrantonio, Il riformista, 19.11.2005 |
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Casi Rimossi. È del 1929 la prima prova letteraria ad autore multiplo |
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Più fascista di Pietrangelo Buttafuoco e le sue Uova del drago, più contro-fattuale di Philip
Dick, più complottardo dell’ultimo Philip Roth, più fantapolitico
dei Babette (factory) con l’ennesimo omicidio Berlusconi, più collettivo dei Wu Ming, già Luther
Blisset, più lanciato di un romanzo
il cui autore finisce sulle
copertine dei settimanali. Il libro in questione non è l’esordio alieno di poesie in forma di
rosa o un’opera in prosa
sul suo nome. Nessuna
profezia civile o divertissement romanzesco
postmodernamente
vergato dopo aver sbeffeggiato i
Bassani di turno. Ma una storia di
“fanta-politica del presente” scritta a 20 mani - cioè da 10 scrittori -
nel 1929, tutti fascistissimi e per lo-
più futuristissimi, ma non solo, riunitisi nel “Gruppo dei Dieci”, capeggiato da Tommaso Filippo Marinetti e Massimo Bontempelli.
Lo
Zar non è morto, che la Sironi editore manda in questi giorni in libreria, è effettivamente un «grande romanzo d’avventure», come
recita il sottotitolo sulla copertina
dove campeggiano i nomi di Antonio Beltramelli, Massimo Bontempelli, Lucio D’Ambra, Alessandro
De Stefani, F. T. Marinetti, Fausto
M. Martini, Guido Milanesi, Alessandro Varaldo, Cesare G. Viola,
Luciano Zuccoli. Autori delle 400
pagine divise in capitoli scritti a
più mani, anche se in fondo al libro un bando di concorso, con tanto di premio in denaro, invitava i
lettori a individuare l’autore dominante di ciascun capitolo.
Schiuma bolscevica. Avendo
ognuno un proprio modo di scrivere e una propria visione del mondo
(poetica, non certo politica, che è
monocolore: nera), il libro ricava
una formidabile eterogeneità stilistica e tematica, seppure ben tenuta
assieme. Sommata alla molteplicità
di personaggi e scenari, ne risulta
una ostentata verve narrativa, mirabolante nel
raccontare un intricatissimo e sconvolgente
“what if...”(cosa sarebbe
successo se...): lo Zar Nicola II, che tutti danno
per morto, assieme alla
sua famiglia, sarebbe invece vivo e vegeto, in
Manciuria, pronto a guidare al riscossa reazionaria per cancellare
dalla Russia la «schiuma bolscevica». L’esistenza in vita di quest’uomo, seppure fosse un sosia, rappresenta un enorme pericolo per l’ancora giovane regime sovietico. Ma,
soprattutto, è un’enorme opportunità per le altre potenze dominanti
lo scacchiere mondiale di scompaginarne gli assetti. Lungo rette parallele ora convergenti ora divergenti
di una Guerra fredda ante litteram
che sta per diventare caldissima. Tra
Pechino, Istanbul, Losanna, Parigi,
Enghien, Roma (persino nelle stanze più segrete stanze del Vaticano)
si snodano le vicende dei personaggi che affollano il romanzo. Dallo
spietato compagno Zelenin alla bella e fatale Oceania World («la donna che dal suo sbarco in China avvelenava la sua felicità»), ma soprattutto i diplomatici, frenetici come pistoni del motore immobile di
Lo Zar non è morto : sir Edwin
Bluth è il decano del Corpo diplomatico, soprannominato Lord Machiavel per l’impenetrabilità della
sua maschera di silenzioso osservatore, mentre il conte De Brigade, è
il suo omologo francese. Pier degli
Orti, invece, il giovane primo segretario di Legazione. Bello, come tutti
i diplomatici e gli agenti italiani.
Perché,come ricorda nella sua nota
Giulio Mozzi, l’editore a cui si deve
la ristampa di quest’opera dimenticata, Lo Zar non è morto è un romanzo fascista e di propaganda fascista». Aggiungendo poi, con un
po’ di ingenuità o semplice effetto
parallasse storico, che «il romanzo è
così sfacciato che il lettore d’oggi, in
tanti punti, non sa se rabbrividire o
sbellicarsi (o magari, conoscendo
l’abilità marinettiana nello strumentalizzare qualsiasi cosa, Fascismo compreso, non sa decidere se
questi qui ci sono o ci fanno)», come
se si trattasse di una «parodia». In
realtà non è un romanzo che racconta un chapliniano Grande dittatore (dove per altro rimane vuota la
casella della “soluzione finale”, che
è stata la miniera cabarettistica di
La vita è bella di Benigni) applicato
al bombetta. Né la versione narrativa di Eros e Priapocon cui Gadda
consegna un ritratto psico-satirico
del «pirgopolinice mascelluto» Duce. E’ di altra origine il senso di farsa in cui si ripete la tragedia della
storia letta con il senno del poi.
Esattamente come il tono sopra le
righe che risuona, oggi, nel commento ai servizi dell’Istituto Luce:
sono la parodia di se stessi nella misura in cui i posteri ridono - amaramente - del tono ottusamente altisonante. Perché stride con l’esito
storico che quelle premesse hanno
avuto. L’umorismo, l’avvertimento
e il sentimento del contrario, è nei
lettori postumi, non in quelli coevi.
Fantapolitica del presente. Su un punto ha ragione da vendere,
invece, Giulio Mozzi. Quando sottolinea l’importanza storico-letteraria di questo romanzo «di fantapolitica del presente (il presente del
1929), cioè un romanzo di una specie che, da quel che si dice in giro, in
Italia è cominciata a esistere solo alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. È dunque un romanzo in
anticipo sui tempi, almeno sui tempi italiani, di settant’anni circa». E
poi: «Un romanzo collettivo, scritto
da dieci autori che, pur non nascondendo i loro nomi, si danno un nome collettivo: “I Dieci”. Impossibile
non fare la connessione: il collettivo
Wu Ming (già Luther Blissett), che
ha prodotto il più noto e più riuscito romanzo italiano di fantapolitica
del presente:
54 . La Babette Factory, che qualche mese fa ha sfornato il romanzo, sempre di
fantapolitica del presente,
2005 dopo Cristo. E la scrittura collettiva, o cooperativa,
non è considerata una delle
principali novità del panorama letterario italiano attuale? Il Futurismo
è stato una miniera. Futuriste sono state l’arte e
la poesia dei primi anni
dell’Unione Sovietica.
Futurista, in qualche
modo (o meglio: a modo suo), era Ezra
Pound. Futurista era
Le Sacre du Printemps
di Igor Stravinskij. Al
Futurismo principalmente – e in genere a
quelle che vengono
chiamate “avanguardie storiche”: molte delle quali sono
peraltro già
figlie del Futurismo – si richiamavano negli anni
Sessanta i ragazzacci del Gruppo
63 (che si autodefinivano, appunto,
Neoavanguardia: “neo”, perché
l’Avanguardia vera e propria era il
Futurismo): e i Wu Ming, ad esempio, sono palesemente, in una buona misura, figli della Neoavanguardia. Il romanzo – e penso che
Henry Fielding sarebbe stato d’accordo, Thomas Pynchon sarebbe
d’accordo, ma né Alessandro Manzoni né Alberto Moravia sarebbero
stati d’accordo – il romanzo, dicevo, è una gran puttana».
Sono molti i paradossi, assai interessanti, generati dalla considerazione che Lo Zar non è morto sia
«un romanzo postmoderno d’antan.
È stato scritto nel 1929,ha ormai alle spalle i grandi esperimenti del Romanzo Modernista (quei capolavori
così grandi e così noiosi da leggere:
Proust, Musil, Joyce...)». |
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