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L'oblio preventivo e l'elogio del plagio |
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Enrico Buonanno, Il riformista, 19.11.2005 |
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Avanguardia. L'eterno ritorno in letteratura |
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Due secoli prima dell’inquietante
società perfetta sognata un giorno da
George Orwell per il suo 1984, prima
di Bradbury e le sue pire di carta
stampata e del presente apocalittico
del bel 2005 d.C. della Babette Factory, Louis Sébastien Mercier, nel suo
2440(1771), narrava di un futuro cinico in cui il governo organizzava splendidi roghi di romanzi giacché essi, in
genere, «erano continue ripetizioni di
altri libri». Cento anni dopo, Friedrich
Nietzsche, passeggiando a «seimila
piedi al di là dell’uomo e del tempo»,
intuiva a un tratto la teoria dell’Eterno Ritorno, sentenziando gaiamente
che nella vita «non ci sarà mai niente
di nuovo» e scongiurando di distruggere gli scritti e rovesciare le cattedre
dei dotti, i saggi ed i poeti per favorire
l’Uebermensch; nulla di più ispirante
per un Filippo Tommaso Marinetti
che già nel primo Manifesto del Futurismo pregava i giovani di sbarazzarsi
e di dimenticare tutte le opere del Futurismo stesso entro pochi anni: «Noi
lo desideriamo!». Detto fatto, giocando ancora sulle date (saremo mica
sprofondati in un ingorgo storiografico?), l’anno 2240 descritto intorno al
1919 nell’unico romanzo dello sfuggente conte Volt, tardo scrittore marinettiano, presenta un mondo in cui
massoni e comunisti hanno trionfato
e in cui il Partito Futurista Nazionale
si adatta, pur con toni eroici, a conquistare liricamente l’iperspazio: questo
non prima, chiaramente, di aver distrutto il parlamento e ucciso con un
attentato il plurimilionario e potentissimo presidente del consiglio in carica, Abramo Lattes.
Ecco una ferma, sconvolgente verità: la storia delle rivoluzioni culturali
e delle ottime trovate letterarie si gioca sempre sui binari del già fatto e sull’oblio - ovvero sulla distruzione - del
già detto al fine di ripresentarlo. Ciò
nondimeno, dai tempi della “reinvenzione”della prospettiva e della “riscoperta”dell’America, la rivoluzione esiste, è vera, è effettiva, e chi si scandalizza e grida al plagio, chi ride e liquida
l’innovazione come qualcosa di già
vecchio, tradisce proprio il meccanismo principale del progresso delle
idee, che avanza con due passi avanti
ed uno indietro. Sta forse qui, tutto il
cocente paradosso di ogni momento
d’avanguardia, è qui, al contempo, la
forza e il limite del sogno e dell’immaginario più potente. L’immaginario
dev’essere paradossale, dunque irrealizzabile, dunque riproponibile. L’innovazione è una spinta, uno sforzo costante, un sacrificio segreto che contiene in se stesso il proprio superamento
e la propria negazione, ma così pure la
speranza che altri riprenderanno - e
plageranno inconsciamente - le forme
e i mezzi della battaglia (e quale mezzo più “epocale”, ieri come oggi, di un
romanzo a più mani? Quale miglior
archetipo di svecchiamento e spia dello “spirito dei tempi” di quattro romanzi sul tema del tirannicidio usciti
contemporaneamente?).
Si era nel 1937 quando, commemorando l’amico e maestro Luigi Pirandello, Massimo Bontempelli - uno
dei dieci autori de Lo Zar non è
morto, un uomo che si proclamava ormai lontano dal «marinettismo» in
quanto scuola ma «futurista» nello spirito - volle elogiare in pubblico quel
grande artista di «candore», colui che
aveva messo in scena il mondo «all’ultimo limite della Seconda Epoca che
intorno a noi sta morendo schiacciata
dai macigni che lei stessa ha fatto saltare con le mine della sua intelligenza». Aldilà dei toni entusiastici, è evidente come per Bontempelli quell’epoca borghese, quell’epoca romantica,
l’Italia ottocentesca ancora fosse lì
presente, per quanto certo moribonda
e nonostante ormai da quasi un quindicennio la «rivoluzione» avesse dato
il via all’Era Fascista. Un anno dopo,
nel ’38, tornando sulla Justification con
cui nel ’26 aveva aperto il primo numero della rivista «900»- laddove si af-
fermava: «Un secolo non è un’invenzione arbitraria: ogni secolo corrisponde a un movimento e a un carattere
della storia. Ma occorre intendersi sulle definizioni cronologiche. Il Novecento non comincia che un poco dopo
la guerra» -, lo scrittore aveva cura, per
la ristampa di Vallecchi, di redigere
una nota a piè di pagina spiazzante:
«Ma la guerra (la Guerra Europea),
cominciata il luglio 1914, non è ancora
finita. Perciò il nuovo secolo, e con esso la Terza Epoca, non è ancora cominciato».
Siamo agli albori degli anni
’40. Quando mai inizierà questo dannato Novecento? Può darsi, nel 2005?
Nel 2240 di Volt? O nel 2440 di Mercier? Quand’è che sarà finalmente
vinta la guerra che l’avanguardia combatte ormai da più di trent’anni?
La verità, come si sa, è che il futuro, per i futuristi, non può arrivare e
non arriverà mai. L’epoca delle macchine, la modernità, non rappresenta
affatto la nuova era a cui si aspira, ma
il «promontorio estremo dei secoli»,
ancora legato dunque al continuum
spazio-tempo. Per il poeta Marinetti
che stende la prefazione alle Revolverate di Lucini, essa è il «generatore formidabile delle potenze future», in cui
magari cominciare appena a scorgere i
primi segni di quel che sarà il «tipo
non-umano dalle parti cambiali». Buzzi cantava: «Son più lontano dal mio
Avo,/ che non il mio Avo da Noè», ma
nel dir questo voleva solo collocare se
stesso nella lunghissima catena storica
di innovazioni e negazioni, balzi in
avanti di un momento pronti già a essere negati (sono le opere futuriste da
gettare via, è la «progettazione all’infinito» dell’architetto Sant’Elia), tanto
che ancora Marinetti non esitava a dichiarare futurista Leonardo Da Vinci
e Balilla Pratella stilava liste di maestri
avanguardisti «in relazione ai loro
tempi», ricordando che «Palestrina
avrebbe giudicato pazzo Bach e così
Bach avrebbe giudicato Beethoven».
Il futurismo non è realizzazione,
insomma, ma tensione. Il futurismo è
«atteggiamento dello spirito» secondo
Boccioni, e quando,in Pittura scultura
futuriste, tracciava schemi epocali segnando gli stadi di Elaborazione e
Apice del movimento futurista stesso
- accanto a quelli dell’astrazione plastica greca, cristiana e naturalista, in una
lunga catena storica - e domandandosi quale sarebbe stata la Trasformazione e l’inevitabile Stadio Ultimo anche
della propria arte, stava probabilmente già sospettando il grande rogo, la di-
struzione, la dimenticanza che era prevista per i suoi sogni e i suoi progetti.
Egli sapeva che l’avanguardia non
può che essere la prima linea che si sacrifica per una causa eternamente per-
sa, che la sua morte - in quanto trasformazione e, successivamente, conclu-
sione della propria missione - è qualche cosa di salvifico, è qualche cosa di
assolutamente necessario, di richiesto.
Il rogo è giusto: altri, magari, riprenderanno la staffetta.
E dunque oggi ci accorgiamo di
avere già dimenticato. Ci imbarazziamo nello scoprire di essere tanto innovativi quanto lo si era cent’anni fa, di
essere qui, ancora qui, in un Ottocento
pervicace che non accenna mai a finire. Oggi capiamo che, nell’affannarci
per trovare nuovi spunti, per «essere
assolutamente moderni» (il gran dettame per il Novecento di Rimbaud, lui
che,intuendo con Verlaine che non c’è
più «niente da dire», abbandonava in
breve tempo la scrittura), non facciamo altro che cedere alla potenza dell’Eterno Ritorno.
Ma il fatto è che, se ci vogliamo dire innovatori, non possiamo non dirci
futuristi, non possiamo non dirci plagiatori. Il fatto è che, se l’avanguardia
è nata proprio per esplodere e sparire,
e oggi dei giovani, inconsci, innocenti,
trovano in sé le stesse voglie, la stessa
forza propulsiva, le stesse «nuove» e
buone idee di ieri, qualche speranza
ancora c’è, allora, di andare avanti con
la lotta, di distaccarci prima o poi dalla catena della Storia, di liberarci, un
giorno o l’altro, dall’opprimente
schiavitù di interi secoli dolenti di
scrittura che ci pesano addosso.
«Carrà, (...) quel che delle nostre
opere rimarrà di buono (se ne rimarrà) per il pensiero, come possiamo prevederlo? (...) ma permettiamoci tu e io un non frivolo vanto per
essere di coloro che han saputo reggere in una continuità e dirittura di sforzi sempre più solida; per non avere
tradito mai, né per stanchezza né per
sgomento, quel nostro antico cuore.
Buon lavoro, e un abbraccio affettuoso dal tuo Massimo Bontempelli». |
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