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Jules Verne e altri fabbricatori di futuro |
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Francesco Dimitri, Il riformista, 19.11.2005 |
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Futurologia e rami più o meno scientifici. Non tutti fanno previsioni ma fondano il tempo a venire. |
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C’era una volta il futuro.
Ed era fatto di macchine scintillanti, forme bombate, città dalle
guglie altissime, robot tuttofare che
di tanto in tanto alzavano la cresta.
Era il futuro dei padri della fantascienza. In un racconto di William
Gibson, Il continuum di Gernsback, il protagonista inizia a rivivere quel futuro sotto forma di «allucinazioni semiotiche»: visioni di
quel che sarebbe potuto essere.
C’era una volta il futuro. Ed era
fatto di città sporche, di retroarchitettura, di vicoli bui e replicanti a
mala pena distinguibili dagli esseri
umani. Il futuro di Philip Dick e il
futuro (simile, non identico) del
film Blade Runner, tratto da uno
dei suoi libri. Un futuro che era figlio del continuum di Gernsback
ma che, come ogni figlio, tradiva il
padre per andare lontano.
C’era una volta il futuro, ed era
fatto di computer onnipotenti, reti
telematiche popolate da spiriti vou
doun, pirati virtuali e ricordi nostalgici di quel che il futuro sarebbe potuto essere - saudade per un presente che non esisteva. Il futuro di William Gibson, talmente avanzato da
commemorare con rispetto l’ormai
defunto nonnino Gernsback. Esistono due modi di pensare il futuro, e
sono il futurismo e la futurologia. La
futurologia è un giochetto da pallidi
pensatori: un tipo tracagnotto con
lenti opache guarda per bene il presente e, trattando la realtà come se
fosse un’equazione, trae conclusioni
su come sarà il futuro. Quasi sempre
sbagliate. I futurologi trascurano il
fatto che la Realtà è una bellissima
donna anarchica e armata, e non
una geisha che obbedisce ai desideri
degli esseri umani.
Poi c’è il futurismo. Il futurismo come atteggiamento, prima
che come concreto movimento
culturale. Il futurismo è folle, este-
tico: vuole il futuro e lo vuole adesso, è una macchina magica che fa
implodere il tempo. Non “estrapola”un futuro, lo immagina - non
pretende di indovinarlo, ma di realizzarlo qui e ora, almeno sul piano
espressivo. Lo acchiappa dal mondo dell’immaginario e lo trascina a
forza nella “realtà”. E così facendo
riesce a prevederlo più spesso della futurologia. Lo prevede perché
lo forma. La futurologia è logica
del futuro. Il futurismo è estetica (e
semiotica) del futuro.
Pensiamo a Jules Verne. Molti
vedono nel Nautilus il precursore
dei moderni sottomarini. Verne ha
dunque “previsto”uno sviluppo tecnologico? Era un futurologo? Forse
è meglio metterla in un altro modo:
senza Verne, chissà se il sottomarino
si sarebbe sviluppato come sappiamo. Magari, senza la visionarietà di
un grande scrittore, le navi subacquee sarebbero finite nel museo fotiano delle stranezze, a far compagnia a colleghe del calibro delle navi
di ghiaccio di Geoffrey Pyke (non
scherzo: Winston Churchill vi fece
un pensiero più che concreto).
Qualcuno obietterà che la storia
non si fa con i “se”, ma con i “fatti”.
Un trito luogo comune:i “fatti”so-
no,appunto, fatti, nel senso che sono
fabbricati. La Storia è interpretazione, come la futurologia e anche il futurismo. Solo che il futurismo è interpretazione entusiasta, che interseca molte diverse razionalità, molti
modi di pensare, (ri)mettendo insieme scienza e magia, misticismo e
matematica. Quindi rivendico il diritto a fare Storia futurista.
A Verne non interessava poi
tanto fare “previsioni”. Era innanzitutto un narratore visionario, che
raccontava avventure usando tutti i
trucchi che gli passavano per la testa. Un sottomarino guidato da un
capitano tenebroso non era plausibile, era figo. È questo uno dei poteri della mitologia, risvegliare l’entusiasmo, ed è alla mitologia che guarda il futurismo. Una mitologia del
futuro, ma pur sempre una mitologia. Più fiaba che analisi.
Proprio per questo funziona. Senza entusiasmo
neppure la scienza va
avanti - senza previsioni
razionali, anche la scienza va avanti benissimo.
Il nodo che lega
previsione, entusiasmo
e diverse razionalità è
evidente tra gli altri in un futurista
russo, Vladimir Khlebnikov. In apparenza Khlebnikov era più “futurologo” che “futurista”: una delle
sue stravaganti avventure intellettuali fu la creazione di un sistema
che,mettendo insieme i vari eventi mondiali, avrebbe dovuto permettere di prevedere con esattezza il futuro. Riuscì perfino a prevedere la Rivoluzione.
Khlebnikov però assomigliava
più agli antichi aruspici che ai moderni futurologi. I suoi metodi erano
intrisi di retorica “scientifica”, ma allo stesso tempo pescavano a piene
mani in Platone, nelle teorie numerologiche, nella tradizione esoterica
e occultista che i Simbolisti avevano
fatto esplodere tra le avanguardie
russe. Tra i suoi progetti vi era la
creazione di un linguaggio fonetico
che fosse intimamente legato alle
cose che designava (la lingua di Dio,
o se preferiamo il codice sorgente di
Matrix) e la misurazione della lunghezza d’onda di Bene e Male. Mescolando diverse forme di razionalità, creava una mitologia in grado di
rappresentare la sua epoca e i suoi
tempi molto meglio di tante teorie
strettamente “razionali”. Fu attraverso queste vie che
giunse a fare la sua previsione di successo sul
1917. Forse fu una pura
combinazione - ma quella che in termini scientifici è “combinazione”, in
termini mitologici è sempre qualcosa di più.
E arriviamo alla fantapolitica, e a Lo Zar non è morto.
Nelle sue espressioni migliori la fantapolitica è quasi sempre futurismo,
di rado futurologia. Esiste un genere
fantascientifico, chiamato ucronìa,
che racconta vicende di storia alternativa: l’utopia è la storia di un luogo che non esiste, l’ucronia è la storia di un tempo che non esiste (o
meglio: che esiste nell’Immaginario). Philip Dick si chiedeva: che sarebbe successo se Hitler avesse vinto la guerra? Per rispondere scrisse
L’uomo nell’alto castello, ambientato in un mondo in cui i nazisti sono
al potere. E un antico oracolo, l’I
Ching,con la sua saggezza sincronicistica guida i protagonisti verso futuri possibili.... Di recente un altro
Philip, che stavolta fa Roth di cognome ed è un autore amato anche
da quell’intellighenzia che tratta la
letteratura di genere come fosse letame, ha scritto di fantapolitica: nel
1940 Roosvelt viene sconfitto da
Lindbergh, e gli Stati Uniti si ritrovano un Presidente antisemita e filonazista. Che accadrà - anzi, che accadde? Leggere per scoprire.
Intitolare nel 1929 un libro Lo
zar non è morto, è come intitolare
un romanzo di oggi “Elvis vive!” La
leggenda della sopravvivenza segreta di uno zar (di solito buono) è
un tema antico nel folklore russo.
Un tema che si è riciclato anche in
èra staliniana: poco dopo la morte
di Lenin si iniziarono a diffondere
fiabe sul fatto che il suo cadavere
imbalsamato fosse uno specchietto
per allodole, e che nottetempo l’amato leader si alzasse per controllare l’andazzo nella sua amata terra.
Un po’ Gesù Cristo, un po’ Batman.
Con un simile spunto di partenza,
perfino la propaganda fascista che
nel libro è presente suona più grottesca che agghiacciante. Come dice
Giulio Mozzi nell’Introduzione, è
difficile capire se il futurista Marinetti ci fosse o ci facesse.
Ad ogni modo, oggi, quando le
grandi narrazioni sono cadute e
perfino il postmoderno mostra la
corda, rifugiarsi in una comprensione mono-razionale del “futuro”
sembra un esercizio quanto mai
sterile. Molto meglio il futurismo di
Marinetti e soci, che con tutte le
sue pecche, mantiene una carica
genuinamente eversiva.
C’era una volta il futuro.
Era futurista. |
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