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"Houdinì mi ha sempre affascinato". Stilos intervista Leonardo Colombati
Giovanni Choukhadarian, Stilos, 03.05.2005
Nella non lunga e forse men che gloriosa storia del romanzo italiano contemporaneo, Perceber vanta di sicuro un primato. Mai un libro era stato annunciato e accompagnato da un così ampio apparato epitestuale. Non soltanto recensioni preventive (un anno addirittura prima dell’uscita in libreria!), non soltanto pareri fugaci e magari immotivati ma molto letti sul web, ma addirittura un blog autografo a esso dedicato e un claim editoriale di tutto rispetto: il capolavoro misterioso. Ora il debutto di Leonardo Colombati si concreta in un’opera prima di oltre 500 pagine, un’ottantina delle quali è costituita da un’appendice di note al testo. Si tratta, alla lettera, di un monstrum, di un’operazione che rivela nell’autore un’ambizione pari soltanto all’impudenza, là dove conferma in Giulio Mozzi un editore coraggioso oltre ogni buon senso. In quanto al merito, Perceber sembra decretare a un tempo che il romanzo muore e risorge dalle sue stesse ceneri, che è impossibile narrare ma non se ne può fare a meno. La dimostrazione dei due paradossi è ardua, e non per niente Colombati dispiega tante pagine e profonde una così ampia, sfacciata erudizione. I tre principali attori in scena si muovono in una Roma d’inizio secolo (questo secolo) che è parente prossima della Dublino di Leopold Bloom non meno che della Parigi di Horacio Oliveira o della Vienna del Mann ohne eigenshaften. Il romanzo di Colombati è perciò una sfida al lettore, domanda pazienza e desiderio d’avventura ma ripaga con una scrittura fantasiosa e soprattutto un senso dell’umorismo genuino e per niente letterario (a dispetto del profluvio di citazioni, così tante che, come fa Linus con i nomi di battesimo nei grandi romanzi russi, si possono anche saltare; ma si perde in divertimento). Fra i molti pareri già espressi su Perceber, assai autorevole è quello di Alessandro Piperno, riportato nel risvolto di copertina. L’autore di Con le peggiori intenzioni parla di romanzo postmoderno e richiama, come altri prima di lui, l’influenza di Thomas Pynchon. Senza negare la fondatezza dell’intuizione, pare altrettanto verosimile che su Colombati abbia rimeditato, fra l’altro, anche la tradizione italiana. In questo senso, Perceber si pone forse come la versione aggiornatissima e scintillante del molto vituperato Dittamondo di Fazio degli Uberti. Se però non si vogliono addossare antecessori troppo importanti, Colombati è tuttavia un’opera-catalogo non polifonica, come sarebbe piaciuto a Bachtin, ma più propriamente atonale, se non addirittura dodecafonica. Un libro soprendente, un debutto fra i più affascinanti delle ultime stagioni letterarie. Il suo autore ne ha parlato con Stilos.

Perceber è un romanzo eroicomico, come recita il suo sottotitolo, o un poema eroicomico sul nulla, come indica invece il blog www.perceber.com? Nell’una e nell’altra ipotesi, qual è per te il senso di queste definizioni?

«Romanzo eroicomico» è una definizione in sé scorretta. Dovrebbe dirsi «poema eroicomico in prosa», così come Fielding definì il romanzo. Ma poi, il libro, chi me lo compra? Comunque, è proprio al Tom Jones che volevo fare riferimento. Già alla sua nascita, con Fielding, il romanzo settecentesco vuole autoparodiarsi. Cos’è il Tom Jones se non un burla nei confronti della Pamela di Richardson? Il postmodernismo non ha inventato nulla, in questo senso. Pensa al Tassoni de La secchia rapita. Diceva che il genere eroicomico si ottiene «mescolando il piccante e il ridicolo con il grave e il serio».

Il libro ti ha richiesto una diecina d’anni di lavoro. In questo periodo, i mutamenti sociali e culturali in Italia e nel mondo hanno avuto qualche riflesso sul tuo lavoro di scrittore?

No. Almeno, io non me ne sono accorto. In quei dieci anni, il romanzo è stato per me piuttosto una fuga dalla realtà, un mondo parallelo che andavo costruendo per un puro piacere personale. Certo, due “fatti” si sono imposti alla mia attenzione e sono scivolati nel libro. Il Giubileo del 2000 – che io ho vissuto con l’irritazione di vedere cancellata per sempre la vecchia immagine della mia città – e l’ascesa al potere da parte della sinistra, nel 1996: D’Alema al Governo ha imposto a molte persone (ed anche a me) alcune riconsiderazioni a proposito di ciò che vuol dire essere «de sinistra». Questa crisi l’ho trapiantata in uno dei personaggi del romanzo. In generale, devo dirti che ho tentato consapevolmente di escludere il più possibile i contatti tra il mondo di qua e quello di là (il libro). Chi ha già letto Perceber mi dice che è un romanzo postmoderno. Al che io ci rimango male. Però in questo senso è vero. Sul genere postmoderno si continua ancor oggi ad insistere sull’idea di Lyotard di un fenomeno post tematico, in contrapposizione alla modernità intesa come volontà di costruire sistemi totalizzanti e come rilettura critica del determinismo scientifico; oppure si mettono in risalto gli intenti decostruzionisti, perseguiti con il montaggio di testi diversi, il citazionismo, il pastiche, le sfumature pop. Ma il minimo comune denominatore, per gli scrittori postmoderni è il crollo del Tempo. Di nuovo bisogna parlare di antistoricismo: se l’idea di progresso è negata, il caos del mondo comporta anche un nuovo modo di vedere il passato; la storia può essere percorsa in ogni sua direzione. È un’intuizione, questa, che ho cercato di fare mia mentre scrivevo.

Chi è l’implicit reader di questo romanzo? E, preventivamente: credi tu all’esistenza di un implicit reader per ogni testo di narrativa (o saggistica, peraltro)?

Con la follia che può permettersi solo lo Scrittore della Domenica, inedito e senza contratti, credo di aver eletto a miei lettori ideali i miei idoli letterari. Bloom ha inserito nel suo Canone occidentale quegli autori le cui opere costringono lo scrittore posteriore a confrontarsi con esse. Ad esempio, tutto il capitolo che Bloom dedica a Joyce è giocato sull’agone tra il dublinese e Shakespeare. Ecco, io scrivevo chiedendomi assurdamente: piacerebbe questa pagina a Nabokov? L’implicit reader, qualunque esso sia, c’è sempre. Entra in gioco anche la vanità, che è sempre presente in chi cerca di creare qualcosa. Qualche anno fa avevo scritto un racconto in cui immaginavo che un bel giorno, per decreto ministeriale, s’era deciso che per un anno tutte le opere d’ingegno avrebbero dovuto essere pubblicate anonime. Il risultato era un calo del 70% della produzione libraria.

Se qualcuno muovesse al libro che hai scritto l’accusa di intellettualismo o, peggio, di escapismo (lemma incluso nel Gra.D.It. di Tullio De Mauro), come risponderesti?

Che Houdini mi ha sempre affascinato... Certo, accusare Perceberd’intellettualismo si può fare, perché no? Lo capisco. È un libro tutto fondato sull’ipercitazionismo; così tanto che credo d’aver suggerito che si tratti di una parodia, o almeno lo spero. Un’altra caratteristica del libro è quella della sua struttura, mutuata dalla Cabala ebraica. Corro il rischio di venire gettato nella fossa in cui giacciono i romanzi sperimentali. Eppure ho tentato di umanizzare questo aspetto, mettendolo al servizio della storia che narro. In questo senso il mio modello è stato Ferito a morte di Raffaele La Capria; un romanzo che utilizza tecniche da Gruppo ‘63, ma le “romanticizza”, e le rende indispensabili al racconto. Giorgio Manganelli compilò una serie di ragioni per cui al poeta possa perdonarsi la mancanza di chiarezza. Secondo una di queste, «uno scrittore può essere oscuro perché è affascinato, è chiamato da una sorta di complessità che solo attraverso l’oscurità è conseguibile». Non sono un nemico del minimalismo, ma concordo con l’affermazione di John Barth: «Fra i grandi scrittori minimalisti, l’impoverimento è frutto di una scelta strategica: la semplificazione avviene nell’interesse della potenza espressiva. Fra gli scrittori meno grandi, però, può essere semplicemente un ripiego». Io, ad esempio, sono un grande ammiratore di Carver e, per fare un esempio italiano, della semplice perentorietà dei versi di Valentino Zeichen. Lo sono un po’ meno dei cento epigoni di Ellis, dei cento cloni di Tondelli.

Credi che Perceber possa leggersi in chiave allegorica o addirittura didascalico-didattica? Ritieni, in questo senso, che uno scrittore del nostro tempo abbia anche responsabilità di ordine morale? Se sì, quali sono?

Io non so se uno scrittore del nostro tempo – o di qualsiasi altra epoca – debba presupporre di avere simili responsabilità. Shakespeare era un moralista? Se lo fosse stato noi non avremmo quel capolavoro di vitalismo che è il personaggio di Falstaff, l’uomo che ci dice sorridendo: «Non è peccato per un uomo agire secondo la sua vocazione». Le grandi tragedie di Shakespeare, come il Re Lear e Macbeth, eludono il ricorso a interpretazioni moralistiche; Shylock non può essere ridotto a un’allegoria cristiana ed antisemita. La tragedia ci pone davanti a degli archetipi su cui la morale potrà semmai abbarbagliarsi – in modi diversi, nel corso dei secoli.

Si è parlato di molti autori stranieri che ti avrebbero influenzato o che comunque tu hai letto. Dato e non concesso che questi riferimenti siano appropriati, che pensi della letteratura italiana moderna e contemporanea? Quali classici hai frequentato?

In letteratura italiana contemporanea sono una schiappa: posso dirti che mi sono piaciuti Q. dei Luther Blissett, l’ultimo romanzo di Nicola Lagioia, Neppure quando è notte di Mario Desiati, Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno... Se provo ad andare un poco indietro nel tempo, mi vengono in mente alcuni romanzi di autori italiani che ho molto amato: oltre a Ferito a morte e a La cognizione del dolore – che per me sono il massimo – dico Il quinto evangelio di Mario Pomilio, certi racconti di Landolfi... Calvino, ad esempio, l’ho consumato a forza di leggerlo, intorno ai vent’anni. Ci arrivavo di riflesso, perché a quei tempi ero ossessionato da Borges. Qualche tempo fa ho provato a rileggere la trilogia de I nostri antenati e ne sono rimasto deluso. Forse Palomar e Le città invisibili restano i suoi due libri più belli.

Sei laureato in legge e hai quindi una formazione di tipo scientifico. Da che deriva il caos della tua narrazione? E’ una scelta di stile o la tua visione del mondo?

Mah, io non credo di avere particolari visioni del mondo. O forse sì, ma mi guardo bene dall’andarlo a raccontare in giro. Quando qualcuno si prova a mettere insieme una certa dose di informazioni per giungere ad un possibile modello del mondo, è considerato alla stregua di Bouvard e Pécuchet – e cioè di un imbecille – o, se gli va bene, dell’ennesimo Thomas Pynchon – e dunque di un paranoico. Sicuramente ho una particolare visione della mia città, Roma. E un cruccio. Com’è che dai tempi gloriosi del cinema italiano, nessuno s’è più provato a raccontarla veramente? Leggo romanzi e vedo film ambientati a Roma in cui Roma è graziosamente rimossa; tutta una lunga sfilza di libri e pellicole in cui c’è il Gazometro e non il Colosseo. Credo che sia stata principalmente questa la molla che mi ha convinto a scrivere Perceber: volevo superare questa specie di blocco, la paura che evidentemente ti prende quando devi raccontare della più complicata, ricca, misteriosa e straordinaria città del mondo. Mi chiedevo: com’è che gli americani riescono a rendere epico un diner’s sulla 57ma Strada e noi non caviamo più nulla dai Fori Imperiali?

Ascoltavi musica, scrivendo il romanzo? E quale (escludi, se possibile, i molti titoli sparsi qui e là nel libro).

Ascoltavo molta musica, se non altro per non sentire gli strilli dei miei due bambini. Dopo numerosi tentativi mi sono costruito una personalissima playlist con dei dischi che conciliavano lo scrivere: Kid A dei Radiohead, Automatic for the people dei R.E.M., Kind of blue di Miles Davis, il primo album dei Cousteau, In a bar under the sea dei dEUS – un gruppo belga che mi piace moltissimo – e poi... Springsteen. Non particolarmente adatto, per la verità, ma chi se ne importa. Mettevo i suoi dischi e smettevo di scrivere; qualunque cosa avessi provato a buttar giù non sarebbe mai stata all’altezza di Jungleland o di Thunder Road, comunque. Sai, prima mi hai chiesto se avevo un lettore ideale, mentre finivo Perceber. Qualche volta ho sognato che il Boss leggeva il mio libro, mi chiamava e diceva: «Non male, ragazzo, continua così. Ma, occhio, prova a scrivere più facile!».
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