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Il legale e l’Ente oscuro nei bassifondi di Atlantide |
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Sergio Pent, La Stampa, 25.01.2003 |
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L’ESORDIO DEL FRIULANO TULLIO AVOLEDO: IL TENTATIVO
DI ASSEMBLARE I NARRATORI YUPPIES AMERICANI E DICK,
LA NOSTRA PROVINCIA DA COMMEDIA E WILBUR SMITH |
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ACCADRÀ di scoprire solo
nelle cinque pagine
del capitolo conclusivo,
in un’impennata di fantanarrativa
esasperata alla
Kurt Vonnegut - più volte menzionato
nel romanzo - a cosa si
riferisce l'intrigante «elenco telefonico
di Atlantide» del titolo.
L’esordio capillare, ragionieristico
del friulano Tullio Avoledo
- estrapolato da una scuola
di scrittura creativa di Mauro
Covacich - lascia in egual misura
accalappiati e perplessi, interessati
e irritati. Un capolavoro
no, un fallimento men che meno.
Ci troviamo nella nuova
zona di azzardo della narrativa
di consumo italiana, quella che
ha prodotto risultati corposi e
riusciti come Nel nome di Ishmael
di Genna - checché ne
dicano i numerosi, forse invidiosi
detrattori - e il megasuccesso
di Faletti, Io uccido, ben fotocopiato
dal thriller serialkilleristico
d’oltreoceano.
Ma con
esiti meno convincenti.
Avoledo è un legale
bancario di Pordenone
- mestiere magari
ben remuneratoma
poco adrenalinico, crediamo
- con un solido bagaglio di
belle letture che esterna a tutto
campo tramite il suo protagonista,
una sorta di malcontento
alter ego di nome Giulio Rovedo.
La cultura letteraria di Avoledo
è di quelle che sollecitano
l’imitazione, la parafrasi, il concentrato
totale di tutte le suggestioni
possibili, nel tentativo di
dar vita al romanzo per eccellenza,
che avvince e dà respiro
alle occlusioni intestinali della
nostra narrativa in cui spesso
vige l’imperativo del «non ti
muovere». Tutto perfetto e godibile,
quindi?
Così parrebbe, almeno nella
prima, curiosa e inquietante
metà della storia, in cui si
discetta di informatica e di
hackers, intrighi bancari, fusioni
megagalattiche e spionaggio
industriale. Il legale di una
piccola banca friulana - il già
citato Rovedo - si
ritrova a dover dirimere
un passaggio
delicato della sua
carriera, rischiando
di essere trasferito a
Milano dalla città
friulana in cui è impiegato,
a causa dell’intervento
fagocitante del colosso
Bancalleanza, una specie
di ente oscuro che sta incorporando
molte banche minori. I
personaggi che si muovono nella
penombra delle grandi manovre
si affannano stranamente
assillati dal futuro della pedina
Rovedo, che si divide tra una
casa in provincia - moglie e
figlioletto - e un condominio di
città, «Il Nobile», in cui sembrano
accadere fatti abnormi e
inspiegabili. L’incontro in treno
con un misterioso personaggio
veneziano - tale Emanuele Libonati
- mette il nostro eroe un po’
sovrappeso sulle piste di strane
premonizioni, soprattutto considerando
che, nel famoso condominio,
gli inquilini non invecchiano
e non muoiono.
Dopo un esordio così rapido e
incisivo, in cui Avoledo rappresenta
al meglio le controversie
delle decisioni aziendali e il
mondo privato dell’inquieto e
un po’ sprovveduto protagonista,
il romanzo dovrebbe crescere
in tensione, sviluppando i
sospetti di un intreccio magico,
arcano, in cui una oscura setta
di evocatori d’antichi misteri
egizi sembra coalizzata a impadronirsi
di un potere destinato
a scopi imprecisati. Avoledo,
però, nel tentativo di assemblare
i narratori yuppies americani
e Philip Dick, la provincia
italiana da commedia e Wilbur
Smith, tende a lasciarsi prendere
la mano dal racconto nella
seconda parte, dove entra in
ballo - per l’ennesima volta
l’Arca dell’Alleanza sottobraccio
al Santo Graal, nonché una
parentesi da teatrino parrocchiale,
stiracchiata quanto inutile,
relativo alla fonte miracolosa
scoperta nella cantina del
condominio alieno e alienato.
Le spiegazioni degli accadimenti
ci sono, anche se nel
frenetico finale la credibilità di
lettura è messa a dura prova nel
passaggio continuo dalla banale
realtà quotidiana alla fantasia
più accanita. In sostanza, la
matrice del libro di Avoledo
risulta alla resa dei conti fantascientifica,
anche se - occorre
dirlo - la sorpresina finale dopo
cinquecento pagine fa rimpiangere
la stessa tecnica usata dal
maestro Fredric Brown per racconti
non superiori alle dieci
facciate. Un po’ spiazzati più
che soddisfatti, dunque, anche
se le capacità strutturali e linguistiche
di Avoledo - se calibrate
in una misura meno egocentrica
e onnicomprensiva - lasciano
presupporre le potenzialità
di un costruttore di storie
solido e intuitivo, in grado di
intrattenere e convincere, con
una minor quantità di carne al
fuoco e un editing a maglie
strette. |
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