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La scienza negata. Quando la scienza è a disagio |
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Enzo Ferrara, Lo Straniero, 05.06.2005 |
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La pressione economica e finanziaria e la crescita dei costi per il mantenimento del personale, dei laboratori e delle biblioteche condizionano ormai del tutto le attività della ricerca scientifica. L'economista Joseph Schumpeter individuava nel processo di “distruzione creatrice” della tecnologia il motore del sistema capitalistico, ma oggi, oltre che un insostituibile strumento di sviluppo della produzione industriale, il mondo della ricerca è diventato in se stesso un grosso affare. Gli scienziati e i tecnici rappresentano un mercato appetibile per i produttori di strumentazioni, software ed accessori, con tanto di riviste ed organizzazioni che di questo vivono sostenuti dagli sponsor, mentre i laboratori devono recuperare fondi e organizzare studi non per il proprio o per l’altrui progresso ma principalmente per la propria sopravvivenza.
In queste condizioni, termini come “libertà”, “apertura” e “imparzialità” riferiti alla ricerca assumono significati opinabili. Non si tratta in generale della loro cancellazione, quanto del loro assoggettamento al regime dell’indirizzo aziendale; la produzione e la trasmissione del sapere devono accettare le leggi del mercato, oppure difendersi strenuamente, perché è in corso una lotta contro tutto ciò che eccede e contravviene il diretto impiego produttivo, l’immediata spendibilità della produzione, anche intellettuale. È la guerra contro lo “spreco” dell’intelligenza, contro quei caratteri extraeconomici che costituiscono la condizione stessa di esistenza e sviluppo della cultura e della scienza (cfr. I belli addormentati: luoghi e istituzioni della scienza, Lo Straniero n. 48, 2004).
Nei primi mesi del 2005, sul disagio degli scienziati, il cui ruolo è in discussione tanto sul versante economico quanto su quello culturale, sono stati pubblicati due volumi con strategie e finalità dissimili, ma accomunati dal tentativo di discutere le motivazioni dell’impegno scientifico. Tanto è partecipe delle vicende pubbliche della scienza contemporanea Enrico Bellone, da un decennio direttore di “Le Scienze” e autore di “La scienza negata: il caso italiano” (Codice, 2005), quanto è refrattario ad esse Renzo Tomatis, un medico scrittore che nel suo ultimo romanzo, “Il fuoriuscito” (Sironi, 2005) continua a raccontare il mondo della scienza dall’interno, sulla scia delle rare e preziose testimonianze che ha raccolto nell’arco di quasi mezzo secolo (Il laboratorio, 1965; La ricerca illimitata, 1971; Storia naturale del ricercatore, 1982).
Il volume di Bellone nella prima parte, “Cronaca di un disastro programmato”, descrive lo stato della ricerca in Italia attraverso un rapido riassunto degli ultimi decenni. L’analisi è impietosa: “L’Italia è passata dal 26° al 46° posto per la competitività, dal 31° al 51° per il livello tecnologico”; per la cultura sono stati diffusi “dati tragici a proposito del numero dei nostri diplomati e laureati”, si parla di un “deficit spaventoso” e di “denutrizione scientifica” (p. 3). Nella seconda parte, “La scienza e la ragione come nemiche dell’uomo”, il testo propone un’ampia rilettura della critica epistemologica, da Galileo in poi, per confutare le rappresentazioni negative della scienza che, identificandola come una nemica dell’umanità, secondo l’autore hanno contribuito a determinarne l’attuale crisi. Bellone lamenta che considerazioni anche fortemente contraddittorie trovano convergenza solo “nel processo alla ragione”, che al termine delle analisi “restano soltanto i pericoli che la ricerca scientifica fa gravare sulla dignità umana” (p. 89). Non si tratta di concetti innovativi e talvolta pare che le tesi confutate (da Giulio Maccacaro a Jeremy Rifkin, da Edgar Morin a Joseph Ratzinger ancora in veste cardinalizia), siano meglio circostanziate delle argomentazioni loro contrapposte. Pare anche esservi confusione, se si associano irrazionalità e riflessioni che alla scienza affiancano i temi dell’economia, dell’ambiente e delle politiche dello sviluppo. Tuttavia, il dibattito avviato nel tentativo di difendere la scienza su due fronti, contro il potere e contro il nichilismo, è opportuno. Quanto meno, è un’occasione per invitare l’élite culturale alla discussione sul ruolo della scienza nel mondo globale (cfr. Emanuele Severino e Piergiorgio Odifreddi, La Repubblica, 19 e 23 aprile 2005), sperando che questi argomenti diventino di frequentazione abituale, anche su “Le Scienze”.
“Il fuoriuscito” di Renzo Tomatis, affronta argomenti analoghi, ma con prospettive diverse. L’autore è uno scienziato di fama internazionale, dedicatosi alla ricerca sul cancro, che lungo la sua strada ha incrociato uomini famosi e potenti e che ha scelto i saggi e i romanzi autobiografici come chiave di lettura del mondo della scienza. Il suo è il racconto di un medico che fa ricerca per seguire al meglio i suoi obiettivi, “per il miglioramento dell’assistenza e della prevenzione e il sollievo dell’immenso carico di sofferenza che i ricercatori (…) sembrano ignorare” (p. 59), cercando di mantenere la contiguità fra la pratica del laboratorio e l’assistenza clinica. Da Torino Tomatis andò a lavorare prima a Chicago e poi a Lione dove, nel 1982, arrivò a dirigere il Centro internazionale di ricerca sul cancro per conto dell’Organizzazione mondiale della sanità.
Nella prima parte il libro racconta della gioventù, della vocazione medica e dell’emigrazione, anche confrontando i modi di fare ricerca in Italia e negli Stati Uniti: “A Torino se si vedeva il direttore in distanza, ci si accostava d’istinto alla parete per far spazio, (…) qui ci si incontrava e salutava come se il direttore fosse un coetaneo (…). Già il primo giorno mi affidarono un esperimento da seguire (…). Non c’era una routine quotidiana cui sottostare, non dovevo lavorare durante l’ora dei pasti per guadagnare qualcosa, la routine era la ricerca (…) ed ero pagato per farla”.
Successivamente, con la maturità, la riflessione si sposta con intensità sul significato della ricerca e sull’etica medica. Inesorabilmente, in particolare negli anni del mandato di direzione a Lione, arrivano gli scontri fra la volontà di rigore e le insidie che gli interessi delle grandi case chimico-farmaceutiche abilmente disseminano. Tra consulenze, finanziamenti, o per semplice conformismo, molti colleghi (opportunisti minori) inevitabilmente cedono. Il danno peggiore è il fraintendimento delle finalità della ricerca, la ripercussione è sul dubbio riconoscimento delle cause del cancro e dei cancerogeni prodotti dall'industria: “Non era sfuggito, infatti, agli scienziati che quelle stesse sostanze che causavano tumori nei lavoratori che avevano il poco invidiabile privilegio di esserne esposti, non solo non restavano per incanto confinate all’interno del perimetro delle fabbriche e finivano per spargersi fatalmente sul territorio circostante, ma immesse nei beni di consumo che erano alla base dei loro profitti si diffondevano in concentrazioni diluite nell’ambiente generale. (…) l’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo, il suolo dove cresce ciò che mangiamo sono ormai inquinati, ma ufficialmente (…) tutto è sotto controllo e non c’è nulla da temere” (p. 160-161). Il racconto termina in un ospedale pubblico a Trieste, in concomitanza con l’arrivo della locomotiva del genoma sul terreno della ricerca antitumorale, quando ormai “termini come tossicologia, inquinamento, fattori di rischio ambientale, prevenzione primaria, ricerca eziologica, sanità pubblica erano interamente spariti dalle presentazioni e dalle discussioni (…), come se fossero rapidamente andati fuori corso (p. 191).
Non si tratta di una lettura leggera, la prospettiva offerta da Tomatis sulla scienza è per lo più negativa, soprattutto riguardo alla possibilità di svolgere ricerca libera davvero. L’accusa è lanciata contro i condizionamenti economici, contro il sopravvenire degli interessi personali, ma anche contro l’universo auto-referenziale in cui sovente cade la scienza “pura”, lontana dalla realtà e dai bisogni. A fronte di una carriera invidiabile e del riconoscimento della propria autorevolezza scientifica, Tomatis ammette che la sua strategia è stata perdente e, nella parte finale del volume, racconta la progressione e l’attesa della sconfitta. Il dramma è che la vicenda personale riflette la storia della ricerca nella seconda metà del Novecento, ridotta progressivamente a strumento di dominio della finanza e del mercato, oltre ogni tentativo di partecipazione democratica e popolare nel suo controllo.
La storia della medicina non è costellata da sviluppi sensazionali delle terapie di trattamento, piuttosto, i suoi principali successi sono caratterizzati da passaggi che dall’ignoranza sulle origini delle patologie hanno portato al loro riconoscimento e poi alla loro rimozione. Ci si chiede come possa la medicina oggi vantare e promettere sensazionali progressi mentre assiste imperterrita al procrastinarsi di situazioni palesemente patologiche sul piano ambientale, fonti di malattie e disagi per la salute di interi strati della popolazione. Uno dei punti in discussione è se il cancro sia o no una malattia largamente prevenibile. Le indagini epidemiologiche hanno mostrato che per i lavoratori dei materiali polimerici, esposti ai cancerogeni organici, la mortalità per cancro allo stomaco e alla prostata, o per la leucemia, è stata tre volte più elevata che nella popolazione comune.
Centinaia di migliaia di lavoratori dell’edilizia hanno lavorato a contatto con fibre di asbesto e molti sono morti di cancro al polmone a tassi fino a sette volte maggiori rispetto al normale. I lavoratori dell’acciaio, gli addetti alle lavorazioni metalliche e il personale delle aziende chimiche sono anch’essi inseriti nella lista delle categorie a rischio tumorale per l’ambiente di lavoro. Grazie a queste evidenze epidemiologiche si è giunti a sostenere che più dei tre quarti delle forme tumorali abbiano origine da fattori ambientali. Stabilito che non esistono livelli di sicurezza per l’esposizione alle sostanze cancerogene, pur con molte cautele, alcuni ricercatori stimano che sarebbe possibile arrivare ad una riduzione quasi di un terzo delle patologie tumorali (altri concedono al massimo il dieci percento), eliminando le sostanze pericolose. In questo senso la prevenzione rimane un obiettivo fondamentale, ma assai distante dall’essere realizzato.
Obiettivo principale del Centro di Lione è stato, fin dall’origine, la prevenzione dei tumori e l’identificazione delle sostanze cancerogene, come richiesto per la loro rimozione. Fra i principali contributi di Tomatis vi è stata la dimostrazione del carattere cancerogeno di numerosissime sostanze chimiche (DDT, amianto, ammine aromatiche) analizzate in progetti di ricerca di diversi anni, anche in assenza di evidenze epidemiologiche. Nel 1990, l’Istituto di Lione pubblicò un volume enciclopedico intitolato “Cancro: cause, patologie e controllo”, una sintesi del lavoro di decenni, con risultati fondamentali per la salute su scala planetaria. Nell’introduzione, Tomatis osservava come vi fossero almeno due fattori capaci di ostacolare e limitare gli sviluppi della ricerca sulla prevenzione tumorale: il primo è “la competizione fra le spese militari (…) e i fondi assegnati per l’educazione e la salute”, il secondo il ritenere che le attività di ricerca possano essere considerate separatamente o, addirittura, in competizione, il che è “un grave errore che non permette agli scienziati di formare un fronte unico per recuperare le risorse e utilizzarle nel modo più razionale ed efficiente possibile”.
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