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Un libro forte e inatteso |
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Alessandro Zaccuri, Avvenire, 21.05.2005 |
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Chi frequenta la Rete, lo conosce come il "Capolavoro Misterioso". E nel mistero ha rischiato di rimanere: appena stampato, il volume è andato disperso nel tragitto fra tipografia e magazzino, un episodio che non guasterebbe in una delle molte trame che si intrecciano in Perceber, corposa opera prima di Leonardo Colombati. Romano, classe 1970, collaboratore di Nuovi Argomenti, è un tipo di narratore che finora ha avuto scarso diritto di cittadinanza in Italia. E' onnivoro come Thomas Pynchon, e come lui tormentato da un demone classificatorio che lo spinge a trasformare la narrazione in un disorientato regesto enciclopedico. Ma è anche immaginifico e generoso come Gabriel Garcìa Màrquez, tanto da imperniare il suo racconto su una città non meno fittizia della proverbiale Macondo.
Fondato da un cabalista, Perceber è un villaggio spagnolo dal quale la lotta contro il nulla si combatte eliminando il colore bianco, lo zero, il silenzio. Impossibile smettere di parlare, quando si entra a Perceber, proprio come sembra impossibile districarsi in un romanzo che obbliga lo stesso Colombati a prodigarsi in note, glossari, riferimenti bibliografici. Decisiva, in questo senso, la tabella iniziale, che propone una millimetrica rispondenza tra i capitoli del romanzo, le Sefiroth cabalistiche, le parti del corpo, i segni dello Zodiaco e i quartieri di Roma, la città che di Perceber rappresenta il doppio terrestre, ma non per questo più facilmente decifrabile. Lo dimostrano i personaggi principali del racconto, testimoni da diversi punti di vista dell'incidente in cui un passante viene travolto e mutilato da un tram. Sono un giornalista in crisi d'identità, un pediatra con un segreto inconfessabile, un vecchio impegnato nel disegno alchemico e sfugente di realizzare una mappa dell'Urbe in scala uno a uno, proprio come suggeriva con ironia Umberto Eco nel Diario minimo. Ecco, se c'è un libro italiano a cui Perceber assomiglia, questo è proprio Il pendolo di Foucault, ma allo straniamento del semiologo subentra qui un'inquietudine profonda, come se Colombati ci stesse costringendo a camminare sopra la sottile lastra di ghiaccio che copre un mare popolato di mostri. Un romanzo difficile, certo, e a tratti volutamente sgradevole. Ma anche un libro forte e inatteso, che obbliga a domandarsi, una volta di più, perché la letteratura adoperi sempre più spesso - sia pure in modo eterodosso e visionario - il linguaggio della teologia, della spiritualità, del mistero.
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