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La timida santità di nonna Tina - Alberto Garlini racconta i suoi struggenti e poetici ricordi |
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Mario Turello, Il Messaggero Veneto, 04.12.2002 |
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Il nuovo libro è giocato sugli affetti e sulla memoria di una vita inconsapevolmente esemplare
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Siamo purtroppo disavvezzi, a libri come questo di Garlini, giocato tutto sugli affetti e sul pianto e sulla memoria, a celebrazione di una vita semplicissima e di piccole tenere cose: Una timida santità (Sironi, 158 pagine, 11,80 euro). Titolo bellissimo, che perfettamente annuncia un'agiografia dell'umiltà e del candore: morte e miracoli di Tina, la nonna dell'autore. E’ luogo comune che coi buoni sentimenti non si fa buona letteratura, ma è una sciocchezza, o una scusa: se ne può fare di ottima, se sincera, se intensa, se commossa è la scrittura. Sincera intensa commossa è quella di Garlini, ma non ingenua: mimetica, piuttosto, di una essenzialità riscoperta come valore, e capace di vestire di parole e immagini la spontaneità di un vivere inconsapevolmente esemplare.
Consiste, la timida santità della nonna, nel pudore di sé, nell'essere per gli altri, nella pietas per le creature e per le cose, nel modellarsi sulle attese altrui, nell'incompiutezza e nell'imperfezione, nelle gioie minute, nell'amore che s'accontenta di farsi attesa, nella vergogna di non poter dare, nel suo morire paziente, ed è la sua morte a trasformare in altrettanti miracoli, nella memoria del nipote, i gesti le parole i racconti altrimenti solo buffi o gentili o patetici. Nel ricordo, e senza ritegno del pianto, il nipote elabora il lutto, e si dispone a far suoi quei valori.
La narrazione è scandita in due parti, sapientemente: nella prima il funerale di nonna Tina è occasione per raccontarne la malattia, la degenza in ospedale, la morte; pagine nelle quali l'amore di Alberto si esprime nel suo prodigarsi angosciato e il dolore si modula in elegia, in patos, in rifiuto, in preghiera, in strazio, in empiti di gratitudine o di rabbia o di irragionevole speranza, e persino di ironica toccante rivalsa: “Ma è la morte che modifica, che non dona silenzio ed è maldestra e rende imperfetto il corpo e il ricordo. Eppure la nonna conservava un'imperfezione sua, i piedi storti, paralleli, inclinati verso destra. Non era un'imperfezione della morte, quella, era un'imperfezione tutta sua... In quei piedi leggermente inclinati, la riconoscevo ancora, ed era il suo timido, casuale, impaurito sberleffo alla morte”.
Tra l'umoristico e l'accorato torna, il tema della morte giocata, in uno dei capitoli più belli (Ah, è lei, signora morte?) della seconda parte, dedicata ai miracoli della nonna: “Immagino che la morte stia impazzendo, ora che la nonna è lì con lei, immagino le prese che fulminano, i rubinetti che perdono nel regno della morte, e la nonna che dice Gims felice e la morte che impazzisce e non sa cosa fare. Spero che sia così e mi faccio allegria, spero in queste piccole rivincite contro quel mare distratto e indifferente che è la morte: mi faccio un po' forza e rido, e so che lei sarebbe contenta”.
Rapsodica, come si conviene all'affiorare dei ricordi, questa parte è ancora più struggente e poetica; le simpatiche bizzarrie, le innocenti impuntature, le gioie di Tina fatte di poco, quasi di nulla, ci fanno arrossire: così si potrebbe, così si dovrebbe vivere, liberi anche da se stessi, ma responsabilmente. Così come non si vieta e non nasconde il pianto, Garlini non si ritrae dalla morale: tratto anche questo inconsueto, anche questo ad alto rischio di enfasi. Ma di nuovo convince: “Forse sto raccontando particolari che non devo, forse sto dicendo particolari che non hanno spiegazione, scusatemi se vi rubo tempo con queste vanità, ma gli uccellini erano piccoli e mi sono trovato a pensare che nella vita ogni persona può fare qualunque cosa, nulla la frena, l'unico codice a cui deve rispondere una pesona è il codice che lei si è data. Nessuno però potrà mai fare del male, oltraggiare, una piccola cosa; lì s'insinua l'abiezione, e un uomo non è più un uomo”. |
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