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Viaggio nell'Italia delle periferie e di chi le abita |
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Niccolò Menniti-Ippolito, Mattino di Padova - Tribuna di Treviso - Nuova Venezia, 24.04.2004 |
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Nuovo libro di Mozzi e Voltolini |
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S'intitola Sotto i cieli d'Italia il nuovo libro di Giulio Mozzi ed è scritto a quattro mani con Dario Voltolini, un altro scrittore che, per vocazione, tende a cercare forme nuove, capaci di raccontare adeguatamente il mondo che muta attorno.
«A Dario e a me – dice Giulio Mozzi – non piace fare una stessa cosa due volte. Se ci succede, è per debolezza. Viviamo, grazie al cielo, in quella specifica nicchia del cosiddetto mercato editoriale che ci permette di fare esperimenti. Cioè, anche di fare errori».
Ed è con questa consapevolezza che i due hanno messo assieme Sotto i cieli d'Italia uno strano e personalissimo viaggio nella penisola, fotografata con la scrittura in una serie di istantanee fatte seguendo non le guide turistiche, ma un po' il caso, un po' la curiosità.
«In questi testi – dice Mozzi – tutto è casuale, perché sono tutti, tranne uno, nati da commissioni, da richieste di enti pubblici, imprese, editori. Quindi i luoghi, per cominciare, non sono stati scelti da me e da Dario. Però non c'è niente di casuale nel lavoro della scrittura: parecchi pezzi di Fantasmi e fughe, che è un mio libro del 1998 scritto nel 1997, potrebbero stare benissimo dentro Sotto i cieli d'Italia; lo stesso si potrebbe dire di parecchi testi di Dario Voltolini».
Una dominante di questi luoghi è poi la periferia. «Veniamo chiamati a raccontare – continua lo scrittore padovano – lì dove ce n'è bisogno: ed è nella periferia che oggi ce n'è bisogno. La città è un luogo che ormai si è rassegnato a essere incomprensibile, che ha prodotto anche una sorta di mito dell'incomprensibiità. La periferia no: la periferia sta vivendo ciò che è successo alla città abbastanza lentamente da cercare di difendersene. Il nostro lavoro fa parte di questa difesa».
In effetti in questo libro sembra comparire con forza una diversa concezione della scrittura, quasi si trattasse di un mestiere, come l'architetto, come il fotografo. «Io preferisco – dice Mozzi – parlare della scrittura come professione più che mestiere. Non si "professa" solo una "professione", ma anche una convinzione, una posizione etica, una fede. Io ho da sempre un'idea della scrittura come cosa che deve servire a qualcosa: soprattutto che non deve servire solo a me. Se non c'è un'utilità pubblica, perché mai fare della scrittura pubblica? Questa idea di "servizio" (che, se si vuole, è molto cattolica; ma penso che anche un'etica stoica la accetterebbe) regola il mio lavoro nel suo complesso: il lavoro editoriale, la scrittura autonoma, quella su commissione, l'insegnamento».
Nel libro Voltolini firma tre racconti, se così vogliamo chiamarli, Giulio Mozzi gli altri sei. La diversità è forte, ma fa parte del gioco. «Ho voluto fare il libro con Dario perché la stima che ho per lui è pari soltanto alla diversità che c'è tra lui e me. Cioè: grandissima. Ci piaceva l'idea di questo contrasto. Una cosa importante per me è il non lavorare da solo. A questo libro, a parte Dario, ha posto mano anche Massimiliano Nuzzolo. E c'è anche, con le sue foto, Carlo Dalcielo: che a sua volta appartiene a un progetto collettivo. La dimensione collettiva della scrittura è, in questo momento, molto attraente per me».
Nelle pagine del libro ci sono l'Emilia e Monfalcone, il Po e la Toscana, villette e supermercati, e la parola diventa sostanzialmente "descrizione". «Il lavoro del "descrittore" consiste – dice Mozzi – nel rendersi disponibili, nel visitare un luogo con una disponibilità ad amare comunque quel luogo; e nel non dimenticare se stessi, cioè nel ricordarsi che solo se la mia identità, che è una sorta di filtro, si manifesta al lettore, il lettore potrà attraverso il filtro cogliere qualcosa del luogo. Poi, per me, nel mio specifico – e in questo sono tanto diverso da Dario – un luogo è soprattutto un discorso. Un discorso fatto da chi abita nel luogo, da chi lo governa o comunque lo condiziona fortemente (pubblici amministratori, imprenditori…), da chi lo rappresenta miticamente (il fotografo di cartoline, la vecchina centenaria…) e fatto anche dalle cose stesse, che sono lì e parlano. E che quasi mai, va detto, sono cose-cose: sono quasi sempre cose antropizzate, cose nelle quali è presente il lavoro dell'uomo. I boschi del Cadore, in fondo, sono coltivati». |
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