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Istantanee dirette, corrosive e credibili |
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Enzo Mansueto, Corriere del Mezzogiorno, 08.08.2002 |
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Porto di mare |
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Dopo il romanzo di Elio Paoloni,
rispettando la tabella di marcia,
ecco un altro libro pugliese nella
collana indicativo presente, diretta
da Giulio Mozzi per Sironi
Editore, espressamente nata sotto
l’urgenza di narrare realisticamente
le immagini, se non le immaginazioni,
dell’Italia contemporanea.
La nuova uscita è Porto di mare
di Livio Romano, una sorta di
reportage narrativo su una vicenda
tutta salentina di malapolitica,
ambientalismo e (ricerca di) identità
generazionale. Alcuni ragazzi
decidono di aprire uno stabilimento
sulla spiaggia di Portoselvaggio,
ma all’atto degli espletamenti burocratici
scoprono che il Comune
ha già deliberato a favore della costruzione
di un porto turistico di
forte impatto ambientale e senza
che la comunità fosse messa al corrente
d’alcunché. Nasce allora un
comitato, la cui vita fornisce allo
scrittore gli spunti per raccontare,
con accattivanti digressioni spazio-temporali (ossessivo e «traumatico
» il ritorno degli anni Ottanta),
una mossa fenomenologia
di tipi umani, mode e schemi mentali,
il cui accumulo, meglio di un
qualsiasi saggio sociologico, rappresenta
la variegata, e spesso
frammentata e conflittuale, realtà
salentina d’oggidì.
Ancora una volta il punto di vista
coincide con la persona dell’autore,
classe 1968, intellettuale
della provincia leccese, con il vizio
della cronaca di costume disincantata
e autoironica, intinta in quelle
sottoculture anglosassoni così
care agli scrittori buonisti più in voga, Nick Hornby su tutti. Del resto,
pare che il libro sia nato su
commissione del curatore di collana,
ammaliato dal racconto delle
esperienze vere di Romano, che
hanno condotto quest’ultimo, nelle
scorse elezioni amministrative,
a misurare sulla propria pelle il divario
tra impegno letterario e politica
(dei partiti). Romano ha risposto
appieno alle aspettative,
confermando che appunto in questa
cifra della narrazione della cronaca
- banalizzando: una sublimazione
letteraria del giornalismo - si
riveli la sua dote più efficace. Un
talento già chiaro nei racconti
pubblicati per Einaudi (nell’antologia collettiva I disertori e nel suo
primo libro Mistandivò), ma che
qui dimostra ulteriori segni di maturazione:
nel linguaggio, per
esempio.
Le produzioni precedenti si erano
affermate presso la critica, soprattutto
in virtù di un (non sempre)
originale pasticcio linguistico
di sapore salentino-generazionale.
Un ibrido di mimesi e invenzione
pseudorealistica che, dicemmo all’atto
della nostra recensione, rischiava
di tradire le premesse di
quella poetica della diserzione degli
stereotipi meridionalizzanti, da
cui pure l’autore muoveva. Ebbene,
in Porto di mare, Romano si
esprime con una lingua più neutra,
eppure le istantanee di salentinità
che ci propone risultano, se possibile,
più dirette, corrosive e credibili,
che non quelle impiastricciate
da una improbabile lingua salentinata.
Una presa di posizione
importante, dichiarata in altri luoghi
dall’autore stesso, che coinvolge
i vari ambiti del presunto rinascimento
pugliese - il cinema in
dialetto, la musica tarantata -, verso
cui cresce il sospetto di abbandono
a compiacimenti di sottosviluppo
o, addirittura, a tentazioni
reazionarie. Certo, da un rischio,
si può passare a un altro: per esempio,
dal pasticcio localizzante allo
standard globalizzante di una letteratura
vendibile e consolatoria
(il modello di Hornby, appunto).
Ma è rischio da corrersi, sulla strada
della sprovincializzazione e della
immaginazione delle Puglie o di
qualsivoglia muta realtà locale. |
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