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Generazione di perdenti ma non di “rassegnati” |
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Francesco Bonardelli, La Gazzetta del Sud, 12.07.2002 |
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“Porto di mare”, romanzo di Livio Romano |
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Si muove, attorno al protagonista-narratore del romanzo ultimo di Livio Romani (apparso in collana da Sironi), un porto di mare di umanità, o meglio di esemplarità generazionale sospesa tra perdita d’identità e riluttanza alla rassegnazione, in ogni forma di conciliante compromesso o assoluta teorizzazione di comodo. Si muove, attorno al nucleo compositivo della strenua difesa di un territorio vergine dall’aggressione e dalla speculazione turistico-commerciale, mascherata di opportunità e successo come chimere perenni di una crisi costante per i giovani del Sud.
E ben presto – nell’incalzare dei ricordi e degli inicisi – finisce per far muovere da sé personaggi e storie, gente speciale e comune, che la scrittura già decifrabile e matura dell’artefice, nella sua evoluzione in stile, identifica e sintonizza sulla giusta frequenza di ogni peculiare soggettività. “Ci sono delle mattine – narra – in cui mi va di mettermi in macchina e corrermene verso il mare. Succede quando tira la tramontana che rende il cielo terso e finalmente sgombro dell’umidità portata dallo scirocco. Se c’è una differenza fra chi vive in provincia e chi sbarca la vita in città: è questa qua di sentire i venti.Ché ognuno di noi, appena si sveglia al mattino, la prima cosa che si chiede è che vento tira, ammesso che già in casa, ciabattando verso la cucina, non avverta i segni inequivocabili della rotta di Eolo per quella mattinata”.
Ciò che – per Romano – è stato definito un “novellare ameno” trova nel romanzo, dopo i racconti di Mistandivò pubblicati da Einaudi, una rispondenza adeguata nei contenuti, innestati sulla mobilitazione delle (giovani) coscienze per la difesa di una fetta di mare e di terra incontaminata. Elementi-simbolo di una generazione ampiamente intesa, con l’io narrante a far da arbitro senza divisa tra gli estremisti e i ripensamenti, tra gli eccessi e la rinuncia sempre in agguato. Con una scelta espressiva che da sé rappresenta un’ulteriore mediazione tra sperimentalismo e tradizione, con l’indugio insistito nell’elegante classicità del periodo e l’ironica riproposizione di slogan e sintesi “ad effetto”. Con il risultato di un procedere narrativo per occasioni e rimandi, storie di dentro e storie collettive che finiscono a sovrapporsi in una complessità d’azione che è poi l’esitazione, l’utopia, la ricerca di senso e di valori di un’intera categoria sociale. I “perdenti” molte volte; ma comunque i “non rassegnati” alla sopraffazione dell’interesse, alla razionalità del profitto, al disprezzo delle regole di vita, identificati nell’autentico significato d’appartenenza alla comunità. Motivi d’interesse ad ampio raggio “culturale”: dal cinema ultimo e penultimo, al teatro, alla musica… Acquisiti qui, però, con il distacco necessario, con l’ironia a volte, e ancora con l’opportuno e quindi saltuario coinvolgimento, dallo scrittore nel contempo complice e spettatore, “responsabile” della storia ma come travolto dal suo tracimare oltre il dovuto e oltre il previsto. Dal momento che sulla “storia” si innestano altre “storie”, per aggiungere significato al motivo stesso della trama e per attualizzare nell’impegno e nella militanza, ma pure nella disillusione e nel realismo, l’ansia mai risolta o pacata di coscienze per sempre giovani.
Il romanzo diviene così, a suo modo, “manifesto” di un pensiero su un’epoca e sui guasti del suo progresso sempre presunto. Ma non il manifesto retorico, verbalmente violento, aggressivo, del già noto e del già scritto, sulla problematica irrisolta di un troppo generico ambientalismo o di una troppo abusata ecologia. Ma la proclamazione di un dubbio (Di Un Dubbio, come scriverebbe Romano) che in sé racchiude i dubbi collettivi di un gruppo di individui ritrovatisi attorno a un progetto di vita e di sopravvivenza. Ciò che emerge, infine, tra le righe e le pagine di un incalzante procedere narrativo: non c’è visione oggettiva o impegno produttivo senza critica e, soprattutto, autocritica; non c’è opposizione alla forza dirompente della logica del profitto senza interrogazione continua degli intelletti e delle coscienze.
Divengono così “umani”, familiari e in gran parte già noti e conosciuti i protagonisti dei racconti intrecciati nella trama romanzesca; alla ricerca di un’identità, che è una moderna riproposizione di un tempo che sfugge alla limitazione degli eventi, alla razionalità dei fatti, ai contorni certi di un’idea o di un principio. Ciò che l’autore sembra anzitutto proporsi, suscitando nel lettore dubbi e perplessità, ma anche identificazione nel tormento irrisolto per una società migliore, per un “senso” d’appartenenza che sfugga finalmente al conveniente intreccio o indirizzo degli eventi. Il Sud con i suoi problemi e le sue risorse, la lotta tra il vecchio e il nuovo, il dissidio tra l’interesse singolo e comune trovano spazio nella scrittura mai estremizzata di Romano; fedele a un modello di racconto che non trae conclusioni tanto nella forma quanto nei contenuti. Ma che lascia aperti discorsi ed esiti stilistici, quasi ad annunciare i movimenti successivi della trama e delle parole, che appartengono al lettore come all’autore. Anche qui, in un compromesso utile fra tradizione linguistica e tensione all’innovazione tecnica. |
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