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“Porto di mare” in Salento non s’ha da fare |
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Nicola Signorile, La Gazzetta del Mezzogiorno, 21.07.2002 |
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Una battaglia ambientale in tutela d’un pezzo di costa pugliese. Storia vera, attualissima. |
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Una storia esemplare: c’è un pezzetto di natura superstite, una scogliera impervia, e c’è una società di speculatori che vuol fare saltare in aria la costa per farci un porto turistico. Il mostro di cemento sarebbe apparso all’improvviso se il progetto non fosse venuto fuori per caso dai silenziosi cassetti municipali e se in difesa di quella costa non si fosse coagulato un comitato di anime candide, ambientalisti, naturalisti ed ex militanti di sinistra. E’ una storia esemplare, quella che racconta Livio Romano in Porto di mare, pubblicato nella nuova collana “indicativo presente” della nuova casa editrice milanese Sironi. E’ la storia esemplare di Serra Cicora, a ridosso dell’area protetta di Portoselvaggio, territorio di Nardò, provincia di Lecce, Italia del Sud. E’ una storia vera, ed attualissima, ed assomiglia a tante altre, per esempio alla vicenda altrettanto attuale di Torre Calderina, sul litorale barese, tra Molfetta e Bisceglie.
Livio Romano racconta questa storia in forma di reportage. Onestamente dice “reportage narrativo” rivelando tutto il disagio che sta dietro una scrittura che del genere giornalistico mantiene solo i riverberi dell’affondo sociale, culturale e antropologico nella cronaca. Ma a contraddire la natura stessa del reportage e ad inclinare verso la narratività concorrono fatti di scrittura tutt’altro che secondari. Chi narra è l’autore medesimo, insegnante neretino già emigrato nell’Emilia e nell’Etruria dove ha “lasciato un pezzo di cuore” e ritornato al suolo matrio; è di sinistra, ma come si diceva un tempo, “cane sciolto”. Il suo racconto si intride di tutti gli umori di chi è parte (entusiasmo disincanto passione ironia). La vicenda dura circa un anno e mezzo e nella battaglia il narratore si impegna non tanto per ragioni ecologiste né per causa politica ma innanzitutto per un moto morale: contrastare che nasconde dietro la burocrazia le decisioni importanti e privatizza l’amministrazione pubblica. La lingua è carattere del narratore: un efficace impasto di idioletti da militanza politica e di registri formalizzati nelle descrizioni legali, di un vocabolario sostenuto quando esprime giudizi impegnativi e di rapide impennate di vernacolo, di arcaismi e di vezzosaggini. Ma tutto è tenuto insieme da una tonalità media alquanto lontana dalla vivacità espressionista della precedente prova einaudiana Mistandivò; una temperatura disimpegnata della scrittura che mira ad essere argomentativa e didascalica piuttosto che assertiva. L’uso frequentissimo dei due punti, anche tra predicato e complemento, è un segnale dell’ansia dimostrativa.
Dunque, più una narrazione che reportage. Una forma ibrida che sta conoscendo una certa fortuna (dopo Sandro Onofri), ma che dovrebbe finalmente uscire dall’equivoco. Anche il casertano Antonio Pascale (che è amico di Romano; entrambi hanno partecipato all’antologia einaudiana Disertori) riconosce che il proprio reportage La città distratta è in realtà un romanzo e con la stessa mano sta ora affrontando la storia del villaggio Coppola, materia del suo prossimo libro. E certo molto più che una coincidenza se ritorna il tema della speculazione edilizia e l’aggressione all’ambiente. Ma Romano e Pascale condividono pure un atteggiamento di disincanto rispetto alla consolatoria retorica del Sud. In Romano questo atteggiamento è fattore di maturazione rispetto alle sue cose precedenti ma gli fa correre anche qualche rischio: egli critica il revanscismo del “pensiero meridiano” ma si precipita a distinguere Franco Cassano dai suoi epigoni; il fenomeno della Sacra corona unita addirittura finisce per essere presentato come una parodia della mafia e anche l’assassinio rievocato di Renata Fonte (l’assessore comunale che vent’anni prima lottava contro la cementificazione di Portoselvaggio) purtroppo si stempera nell’indulgenza con cui l’autore giudica il miserabile sicario.
Vi sono insomma zone dell’esperienza collettiva che pure per il dolore che contengono non possono essere trattate con la medesima leggerezza e la pungente ironia con cui si raccontano le gesta antieroiche di Teresa “segno di terra”, Valeria e lo “zito suo”, Oronzino il democristiano disgustato e poi Timeo, Carmelo, Pantaleo e Jarry Condottiero… gli animatori di un comitato che scompagina i disegni degli speculatori e mette in crisi la stessa sinistra ufficiale, che aveva già detto sì con i suoi architetti e i suoi consiglieri comunali agli ammaliatori dello “Sviluppo Possibile” e del turismo internazionale. |
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