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Uno del mucchio
Carlo Bordone, 03.09.2003
Da un tavolino di un locale in Piazza Vittorio, in una tranquilla sera di inizio estate, la Torino di oggi sembra davvero distante da quella, gelida in superficie e rumorosissima nell’uderground, di venti anni fa. E forse anche Silvio Bernelli, trentottenne copywriter all’esordio come scrittore con I Ragazzi Del Mucchio, è lontanissimo da quello che suonava il basso ne Il Declino e poi negli Indigesti, il “mucchio selvaggio” di cui facevano parte come compagni di strada anche i Negazione. O forse no, non è cambiato affatto. Ne abbiamo parlato in questa intervista, incentrata sul romanzo che Bernelli ha dedicato a quegli anni e a quei ragazzi.

Come è nato questo libro? Perché quindici anni dopo ti è venuta voglia di raccontare la tua storia, e quella degli altri “ragazzi del mucchio”?

Be’, innanzitutto la decisione di mettersi a scrivere deriva dalla convinzione di ritenersi uno scrittore. Detto così può sembrare un’affermazione pomposa, me ne rendo conto. Diciamo allora che credo di possedere lo sguardo e la sensibilità di uno scrittore. In quanto alla tecnica, ancora non lo so. Ho cominciato a scrivere molti anni fa, con la stessa passione e lo stesso approccio con cui suonavo il basso. Avevo mandato un romanzo a una casa editrice, che mi rispose con una lista di correzioni e suggerimenti. Ci ho riflettuto un po’ sopra, e mi sono detto “è questo che voglio scrivere?”. La mia ambizione era di raccontare una storia che, dal mio punto di vista, fosse l’inizio di tutte le storie. Per certi versi, la mia vita assomiglia a un romanzo. Ho avuto la fortuna di vivere un’adolescenza ricca di avventure, di fatti, di incontri. E quindi, mi sono detto, scrivi un romanzo che parta da lì, da quelle storie.

In quanto tempo lo hai scritto?

L’idea è nata cinque anni fa. Per buttarlo giù ci ho messo, tra i vari lavori che intanto mi tenevano occupato, circa quattro anni. Alla fine l’ho riscritto da capo, in pochi mesi.

Perché?

Cercavo uno stile che fosse veloce e allo stesso tempo rispettoso. Non posso essere io a giudicare della qualità dei risultati, ma mi conforta molto il giudizio di persone che hanno letto il libro. Una mia amica poetessa, Francesca Tini Brunozzi ha definito la mia scrittura “rigorosa e delicata”. Mi pare un bellissimo complimento.

Sono d’accordo. Anch’io ho avuto la stessa sensazione, anche se non essendo poeta non avrei saputo trovare una definizione altrettanto precisa. Mi piacerebbe chiarire un punto, però. Quella dei “ragazzi del mucchio” è una storia vera, i protagonisti appaiono con i loro nomi e non c’è nulla di inventato. In che senso allora è un “romanzo”, e non semplicemente un diario personale?

La differenza la fa la voce narrante. E’ lei a fare la pasta, chiamiamola così, della storia. L’aspetto romanzato sta nel montaggio dei fatti, nel processo di costruzione che parte da un serbatoio enorme di ricordi. Ho dovuto fare una selezione, in modo che la storia mantenesse un ritmo costante. E’ vero che i “personaggi” sono persone in carne e ossa, ma entrano e escono di scena proprio come i protagonisti di un romanzo. Un libro che io ho amato molto, scritto con questa tecnica, è Lessico Famigliare della Ginzburg. I Ragazzi del Mucchio parte da molte letture: da quel magnifico viaggio alla ricerca di sé stessi che era Strade Blu di William L.H. Moon a Broadway di Nick Cohn, da In Patagonia di Chatwin a Aria Sottile di Jon Krakauer. Al di là delle differenze di argomento, sono tutte storie che mettono in scena una passione. Mi sono ispirato anche a un certo tipo di “narrazione filmica” tipica dei telefilm americani tipo E.R. o NYPD. La cosiddetta tecnica delle ellissi: il fatto in sé non ha bisogno di esser raccontato, è tutto ciò che gli sta attorno che crea la sostanza della narrazione.

In questo senso il tuo libro si distanzia dagli altri volumi su quel periodo. Penso, per esempio, a Costretti a Sanguinare di Marco Philopat…

Con Philopat ho una lunga conoscenza personale. Lo stimo, e ho apprezzato molto Costretti A Sanguinare, ma non penso che si possano fare dei paragoni. La differenza, di nuovo, la fa la voce narrante. La mia parte da un punto di vista ben preciso, quello del musicista. Un aspetto che a Philopat non interessava. Del resto, chi vuole una ricostruzione storica rigorosa di quegli anni, non la deve cercare nel mio libro. Non è una cronaca dettagliata della stagione dell’hardcore italiano, è una storia possibile tra le tante. Il fatto di essere trasfigurata in romanzo credo le dia dei valori nuovi. I Ragazzi Del Mucchio racconta semplicemente le passioni, i sogni, le vittorie e le sconfitte di un gruppo di ragazzi in un certo periodo storico e musicale. Tutto qui.

Quale è stata la reazione dei protagonisti di quelle storie?

La maggior parte di loro ci si è ritrovato. Con commozione e, ne sono convinto, con orgoglio. Qualcun altro ha manifestato meno entusiasmo. Può dispiacermi, ma del resto è tutto sotto gli occhi di chi legge. I Ragazzi del Mucchio è un omaggio a ognuno di loro, e poi non credo affatto che la letteratura debba servire a regolare dei conti in sospeso.

Ti sei censurato qualcosa, nella selezione dei ricordi di cui parlavi prima?

Tutto quello che volevo raccontare l’ho raccontato. Ho lasciato da parte alcune cose perché troppo legate a una certa persona piuttosto che a un’altra. Volevo che il lettore avesse una visione equilibrata di quei fatti. Tutta la realtà in un libro non riesci a farcela stare. Non ci entra una vita, in un romanzo, figurati quindici.

A te, invece, che effetto ha fatto scriverlo?

Tutto questo libro non è niente altro che un viaggio alla ricerca del ragazzo che sono stato. Scrivendolo, e poi rileggendolo, mi è capitato di ridere ma più spesso di commuovermi. E’ il regalo che questa storia mi ha fatto.

Un episodio in cui personalmente ho riso e mi sono commosso allo stesso tempo è quando racconti di Max, il chitarrista de Il Declino, che ti annuncia di mollare il gruppo. Siete lì su una panchina fuori dal locale dove stanno suonando gli X, e lui ti dà la notizia proprio mentre Exene e John Doe attaccano Sex And Dying In the High Society. Cose che capitano solo quando sei adolescente…

Il classico esempio di “svolta inattesa”. Proprio nel momento in cui vai a vedere uno dei gruppi che ami di più, il tuo miglior amico ti fa una confessione catastrofica. ..sì, proprio quel genere di cose che ti succedono quando sei ragazzo. In fondo, quell’episodio l’ho messo anche come tributo agli X.

Una storia, quella che racconti, in cui ha un ruolo anche questa benedetta/maledetta città in cui viviamo entrambi. Come ricordi la Torino di quei primi anni ’80?

Per certi versi era molto peggio di oggi. Per altri, è rimasta uguale, come è nella sua natura. In quegli anni Torino offriva davvero poco. Una città perbenista, chiusa, dove non ti servivano neppure una pizza se giravi conciato da punk. Noi torinesi ci siamo persi anche l’unico aspetto positivo di quel periodo di riflusso, quella voglia di divertirsi che poi sfocerà nella scena dei club. Tutto ciò qui da noi arriverà solo alla fine degli anni ’80. Nel libro, Torino è raccontata per contrasto. Non è un caso che gli Indigesti abbiano suonato in giro per gli States e l’Europa, ma non abbiano mai fatto un concerto che fosse uno in questa città. Voglio dire, non che fossimo i Led Zeppelin, però…mi sembra, nel suo piccolo, un dato significativo.

Che rapporto hai oggi con l’hardcore? Credi sia stato un genere musicale che davvero ha cambiato, almeno per quei tempi, il modo di fare rock?

Dell’hardcore storico sono rimaste una manciata di dischi meravigliosi e una attitudine che in questi anni ho ritrovato anche in chi non suonava hardcore. Per esempio nei Nirvana, o addirittura in certa elettronica stile Leftfield o primi Chemical Brothers. Oggi, sinceramente, non seguo la scena hardcore. Anche quando suonavo avevo gusti musicali più ampi: nell’84 o ’85 mi capitava di salire sul palco con le t-shirts dei Beastie Boys o dei Public Enemy, ero un grande appassionato della prima ondata hip-hop. Oggi mi sono fatto prendere da certe atmosfere americane molto classiche, direi quasi “di frontiera”: tipo i Calexico, o gli ultimi dischi di Johnny Cash.

Nella storia del rock indipendente italiano, pochi gruppi hanno avuto altrettanto gradimento e altrettanta visibilità all’estero di quelli hardcore. Quale era l’arma in più di quelle band?

C’era un grande rispetto nei confronti della nostra scena hardcore. Gli stessi americani, che quel genere l’avevano inventato, parlavano di “scuola italiana”. Avevamo davvero qualcosa in più rispetto alle band europee, e forse anche a qualcuna americana. La voglia di arrivare, soprattutto. La consapevolezza di partire da una situazione ambientale più difficile. E poi la grande padronanza degli strumenti, una velocità impressionante di esecuzione, la carica che mettevamo sul palco. Inoltre quei gruppi potevano contare su musicisti dal talento indiscutibile: Rudy degli Indigesti, Tax dei Negazione, Stefano Bettini degli I Refuse It, che poi diventerà famoso nel giro ragamuffin come Il Generale. Essere parte di quella scena voleva dire, forse per la prima volta in Italia, far parte di qualcosa che accadeva contemporaneamente in tutto il mondo.

Qual è secondo te l’eredità più importante di quel periodo?

Tanto per cominciare quella musicale. Spesso capita di ritrovarsi per decidere se ristampare un certo disco, tirare fuori dal cassetto qualche traccia, e così via. Un modo per rinsaldare un legame che comunque rimane fortissimo. L’eredità delle persone…beh, quella è rimasta sulla pelle di tutti. Noi siamo cresciuti così, la nostra adolescenza è stata quella: in un furgone in giro per l’Europa, su un palco mentre fuori i punk si scontravano con la polizia…Certe esperienze, vissute a quell’età, ti segnano e fanno di te una persona per forza di cose diversa.

Senti, l’ultima domanda ti sembrerà un po’ scema ma non posso non fartela. C’era tra voi ragazzi del mucchio selvaggio qualcuno che leggeva…il Mucchio Selvaggio?

Guarda, al proposito mi viene in mente un aneddoto che ti dà la misura di come quei ragazzi cresciuti a pane e Dead Kennedys vivessero in un mondo tutto loro. La sera in cui decidemmo, spinti dalla passione per il film di Peckinpah, di darci questo nome di battaglia, qualcuno se ne uscì dicendo che aveva visto in edicola una rivista che si chiamava il Mucchio Selvaggio. Pensate, ragazzi, in copertina c’è Bruce Springsteen. Uno del gruppo, in tutta innocenza, salta su e fa: “Bruce chi?”. Ecco, questo eravamo noi ragazzi del mucchio.
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