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Narratori di classe |
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Giuseppe Marchetti, La Gazzetta di Parma, 07.08.2003 |
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Gianfranco Draghi e Davide Bregola |
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Si riaffaccia sul panorama un po’ sbiadito dei nostri giorni narrativi Gianfranco Draghi con un romanzo breve pieno di fascino, Infanzia, prefato da Giuseppe Pontiggia e pubblicato dalle Edizioni Tre Lune di Mantova. Per l’esattezza, il libro di Draghi s’intitola Infanzia e principio di una adolescenza, ovvero Tommaso il cavaliere e subito vi si riconosce quel brivido del passato che, legandosi ai ricordi di un adolescente avido e timido, ma curioso e riservato, scava in una materia mai del tutto depositatasi, mai quieta e in sé risolta. Il manoscritto affidato a Tre Lune ha cinquant’anni, fu pensato e steso durante un lungo soggiorno estivo sul lago di Como, era – ed è rimasto – una testimonianza consapevole e gaudiosa di un’età irripetibile nella quale Draghi affonda con misura le mani e gli occhi. Osserva perciò giustamente Pontiggia che “La qualità forse più importante di questo romanzo visionario e forte, nella sua originalità e nella sua energia, è di proiettare in immagini il tormento della maturazione e parallelamente di risolvere in acquisizioni interiori le metamorfosi del passaggio e i personaggi dilatati dall’occhio infantile e adolescente”. Gianfranco Draghi, che fra pochi mesi compirà ottant’anni, è uno dei personaggi più inafferrabili della nostra cultura. Giovanissimo militante del Partito d’Azione, a Milano, nel settembre del ’43 si rifugia in Svizzera e dopo la fine della Guerra si laurea con Garin a Firenze discutendo una tesi su Leon Battista Alberti. Fece parte del ristretto gruppo di amici che si radunavano attorno a Cristina Campo (l’anno prossimo Adelphi pubblicherà un suo carteggio con questa scrittrice) e conobbe Altiero Spinelli. Nel ’58 a Roma fa un’analisi didattica con Ernst Bernhard iniziatore del metodo junghiano in Italia e nel ’55 Vallecchi gli pubblica Inverno uno dei racconti più belli e intesi di mezzo Novecento.
È con questo libro che il nome di Draghi si diffonde un poco almeno fra i più attenti critici italiani, ma i testi che seguono non allargano il cerchio degli interessi dei lettori attorno a questo scrittore anomalo. Ragioni di una forza in Simone Weil (Siascia ’58), e Sul mito d’Europa (L’Individuale ’73). Adesso però Infanzia con la sua prosa irrequieta e mobile (Pontiggia) e con il suo montaggio espressionista “che passa da una interiorità gremita di angosce balenanti e di felicità inesplicabilli e un dialogo sempre conturbante nella sua reticenza allusiva o nella sua aggressività manifesta” (Pontiggia), rimette tutto in discussione e ci consegna un racconto che, nulla possedendo più del realismo faticoso e omelitico degli anni Cinquanta, si compenetra di quella visione dolcemente straziata dell’adolescenza che è stato, per molti di noi, mistero e meditazione.
Tommaso è il bambino che si affaccia sul mondo. Lo circondano molti altri personaggi e o stringono da vicino amicizie, timori, sorprese, sospetti, curiosità, malignità e paure; la vita gli si rivela adagio o improvvisamente e il cerchio si apre e si chiude secondo un destino che non ha ancora mete, mentre i personaggi che popolano le pagine dei Racconti felici di Davide Bregola (Sironi editore) – un altro scrittore molto più giovane di Draghi, ma ugualmente giunto a una ferma e sicura maturità – vivono dentro un’incertezza sovrana, senza contorni, da incantesimo, e da mediocrità nello stesso tempo. È l’attesa il fenomeno che Bregola analizza con la sua narrativa apparentemente svagata e lunatica ma in realtà, invece, dotata di una precisione persino lancinante e atroce.
Draghi è bolognese, Bregola è mantovano e ferrarese, uomo della Bassa, scrittore di atmosfere come si dice e di periferia: dunque, scrittore che sa cogliere nella “felicità” dei propri racconti esattamente anche il contrario, secondo “La lenta sinfonia del male” che è la sua grande sinfonia pensata e scritta “senza scampo”.
Non ci sono altre possibili virtù, dopotutto, nemmeno il previsto eclisse di sole porta “una svolta, una forma di riscatto”. Con una prosa rapida, segmentata, ansiosa e tuttavia rassegnata in una studiata mediocrità, Bregola affronta il male di vivere per “nuclei sghembi” come lui stesso dice, nuclei che l’avvicinano alla realtà deformandola ferocemente oppure se ne allontanano isolandola in una dolcezza perversa anche se “purtroppo a volte qualcosa accade”.
E qui sta la dichiarazione di poetica di Bregola, il suo sentirsi narratore della quotidianità più separata e normale che in sé alleva però la pazzia di tutte le cose, una quotidianità “incasinata” che non sai più da che parte affrontare e che alla fine si scioglie in un nulla di fatto tragico e onesto come l’impotenza.
Fra questi due narratori pubblicati da piccole ma accorte case editrici che abbiamo avvicinato non casualmente in buona sostanza si gioca anche oggi l’intera posta della nostra narrativa: da una parte la scelta, il racconto, l’efficacia drammatica dell’io che si muove come un recupero misterioso di tutte le possibilità passate e future. Dall’altra, invece, una iniziazione senza sviluppi che racconta l’eterna periferia dei sentimenti e delle emozioni mostrandosi paga per ora di questo solo risultato: una resa dolente, ma prevista. |
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