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Non solo realismo per capire la società
Alessandro Zaccuri, Letture, 01.09.2003
Il dibattito sull’identità culturale italiana è tornato prepotentemente a imporsi negli anni Novanta, dopo un lungo oblio. Sorprende il mancato coinvolgimento della narrativa nella "radiografia" dello Stivale, mentre il cinema di casa nostra fatica a rappresentarne le innumerevoli facce. Vediamo con quali nuove forme e iniziative si sta tentando di colmare il divario.
La mappa, ormai lo sappiamo, non è il territorio. Ma resta il fatto che l’inesistenza o la comprovata inaffidabilità di una mappa possono far sorgere il sospetto che, in realtà, non esista alcun territorio da cartografare. Per troppo tempo la letteratura e il cinema si sono accontentati di trascrivere in bella grafia uno sconsolato Hic sunt leones là dove, al contrario, ci si sarebbe aspettati una descrizione – più o meno aggiornata, più o meno convincente – della società italiana. Come se in questo Paese non ci fosse nulla di notevole da raccontare, come se tutto accadesse sempre e comunque altrove, e non in questa periferia dell’impero. Da qualsiasi parte, ma lontano da qui.

Durante questa glaciazione della realtà (realtà, non realismo: la distinzione è importante, la riprenderemo tra poco), chi ancora si ostinava a interrogarsi sulle sorti d’Italia e sull’identità degli italiani era costretto ad arrangiarsi alla bell’e meglio. E non è davvero un caso se, nel corso degli anni, i modestissimi romanzi delle canzonette sanremesi hanno svolto un’improbabile funzione vicaria. Il Festival? Meglio di un rapporto Censis, si sentiva ripetere in tono sempre più convinto e sussiegoso. Anche se poi, a ben vedere, Sanremo e rapporti sociologici hanno davvero qualcosa in comune, per esempio la tendenza ad arrivare in ritardo (e neppure tanto lieve) rispetto alla realtà che pretendono invece di rappresentare in tempo reale. Basti pensare a quanto risultò "d’attualità", nel 1994, la celeberrima Minchia, signor tenente del non ancora romanziere Giorgio Faletti, una canzone che pure prendeva spunto da un fatto (l’attentatùni di Capaci, con cui Cosa Nostra si sbarazzò di Giovanni Falcone) che risaliva a due anni prima.

In mezzo a tanta distrazione e a tanti ritardi, i primi a fare il lavoro sporco sono stati, come al solito, i giornalisti. Con risultati discontinui (anche questo è un incerto del mestiere), ma con una generosità e un accanimento che hanno finito per dare frutto. Perché l’Italia di oggi, questo ormai l’abbiamo capito, è il risultato delle trasformazioni che si sono susseguite nell’ultimo decennio, diciamo dal fatidico ’92 in poi. Tangentopoli, le stragi di mafia, la nascita burrascosa della seconda Repubblica, il rapido invecchiamento della new economy: tutto questo, bene o male, è stato raccontato in presa diretta da libri-reportage che magari non entreranno nella storia della letteratura, ma che di sicuro hanno obbligato gli stessi scrittori a rivedere le loro prospettive. Al punto che quello che un tempo era il "secondo mestiere" – praticato spesso per ragioni alimentari – del letterato è diventato, di fatto, la sua prima occupazione. Pensiamo al versante non-fiction di un autore come Sandro Veronesi, che in libri come Cronache italiane (1992) e Live (1996) è riuscito a suggerire un ritratto del nostro Paese molto più accurato e, in definitiva, credibile di quello, pure coraggioso, che si intravede nel fortunato romanzo La forza del passato (2000). O pensiamo a un altro narratore romano, Claudio Camarca, che nel corso degli anni si è sempre più allontanato dalle soluzioni (peraltro impegnate, e di forte impronta pasoliniana) dei suoi esordi, per rivolgersi a una forma di reportage letterario capace di raccontare in modo impietoso contraddizioni e debolezze dell’Italia di oggi, come dimostra per esempio I santi innocenti (1998), crudo resoconto sul dramma della pedofilia. Ma altri nomi si potrebbero aggiungere, come quello di Mauro Covacich, che ha portato nei suoi romanzi (compreso il recentissimo A perdifiato) l’acutezza di sguardo e la capacità di introspezione collaudata in inchieste sul campo come Storie di pazzi e di normali (1993) e La poetica dell’Unabomber (2000).

Questo, però, non significa che l’immaginario deve smobilitare a tutto beneficio del "documento", quasi in una riedizione della discutibile epopea dei "franchi narratori" anni Settanta, una metodologia che del resto ebbe i suoi esiti più convincenti quando la denuncia sociale riuscì a caricarsi di una sua intima e necessaria forza visionaria (il caso più celebre rimane, a ragione, quello di Padre padrone di Gavino Ledda, 1975). Se dovessimo provare a sintetizzare in una formula la situazione odierna, potremmo forse dire che la realtà italiana è tornata a rivendicare i suoi diritti anche al di fuori dei confini del realismo propriamente detto. Particolarmente emblematico risulta, da questo punto di vista, il percorso di uno dei più interessanti editori "di progetto" degli ultimi anni, il milanese Andrea Sironi, che ha esordito nel 2002 con una collana dichiaratamente dedicata alla rappresentazione del "Paese reale". Curata dallo scrittore Giulio Mozzi, al quale si deve il "Manifesto" programmatico dell’iniziativa («Vogliamo fare una collana di libri che raccontino l’Italia com’è. Perché l’Italia è la nostra patria e i suoi destini ci stanno a cuore»), "Indicativo presente" non si è limitata a coordinare il lavoro di autori già noti come Giuseppe Caliceti (Pubblico/Privato 0.1) o Vitaliano Trevisan (Standards vol. I), ma ha anche portato alla ribalta esperienze inedite, tra cui si può ricordare l’illuminante Piramidi di Elio Paoloni, un romanzo che racconta dall’interno trappole e meccanismi del multilevel marketing.

Non è un caso che "Indicativo presente" sia il risultato della ricerca di uno scrittore come Mozzi, che nei suoi libri (i racconti di Fiction, 2000, per esempio, ma anche i testi di adolescenti raccolti insieme con lo stesso Caliceti in Quello che ho da dirvi, 1998) ha dimostrato di sapersi muovere con estrema consapevolezza nel territorio di confine fra letteratura e documento. Ma non è neppure un caso che, dopo qualche mese di scandaglio "sociologico", Sironi abbia inaugurato con L’elenco telefonico di Atlantide dell’esordiente Tullio Avoledo una seconda collana, "Questo e altri mondi", nella quale la realtà italiana è il punto di partenza per inusuali escursioni nella cosiddetta "narrativa di genere". Thriller e reportage, inchiesta sul campo e diversione nel fantastico sono i due aspetti, niente affatto contraddittori, di uno stesso percorso, che ha come obiettivo la comprensione più profonda delle dinamiche che hanno portato il nostro Paese a essere quello che è.

Va in questa direzione, ad esempio, la ricerca di un autore come Giuseppe Genna, che attraverso il personaggio del commissario milanese Guido Lopez (Catrame, 1999, Nel nome di Ishmael, 2002 e, ora, Non toccate la pelle del drago) sta redigendo una vera e propria controstoria d’Italia, di cui si trova traccia anche nella magmatica e allucinata riscrittura de I demoni di Dostoevskij che lo stesso Genna ha da poco portato a termine con Michele Monina e Ferruccio Parazzoli. E nella stessa prospettiva potrebbero essere letti 54 di Wu Ming (2002), il collettivo di scrittori già conosciuto come Luther Blisset, oppure Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo (2002), rivisitazione straniata e conseguente delle imprese della famigerata banda della Magliana.

No, non è il vecchio discorso del "genere" che spiega la realtà meglio del mainstream. È, piuttosto, l’ammissione del fatto che attraverso il "genere" (e nella definizione, in questo caso, possono rientrano anche la pratica giornalistica e perfino quella del saggio) è possibile tornare a dire verità piccole e grandi che il calligrafismo di una certa tradizione novecentesca ha rischiato di interdire per sempre. Sta succedendo qualcosa di simile anche al cinema, dove la visione "orizzontale" del sociologismo per immagini di Gabriele Muccino (Come te nessuno mai, 1999, L’ultimo bacio, 2001, e Ricordati di me, 2003, sono pensati ciascuno, e in modo programmatico, come spaccati di una determinata "generazione") è sempre più messa in dubbio da pellicole che, sia pure in modo molto diverso l’una dall’altra, invitano a praticare una lettura di tipo "verticale" della realtà: lo scandalo del dolore ne La stanza del figlio di Nanni Moretti (2001), il mistero dell’amore coniugale in Casomai di Alessandro D’Alatri (2002), la scoperta del male in Io non ho paura di Gabriele Salvatores (2003), nel quale viene portato in primo piano il sottotesto spirituale soltanto accennato dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti (2001).

I libri da leggere, i film da vedere per capire l’Italia in cui viviamo non sono soltanto questi, si capisce. E per molti buoni motivi. Nell’elenco che abbiamo fin qui suggerito, per esempio, mancano le voci femminili. Omissione colpevole, è vero, che può essere almeno in parte attenuata dal fatto che, in generale, la testimonianza delle donne è rivolta al privato e all’interiore più che al pubblico e al sociale (ma un libro come Cibo di Helena Janeczek, 2002, conferma e nello stesso tempo smentisce questa affermazione). Mancano inoltre molti "gruppi" che nell’ultimo decennio hanno tenuto banco: niente cannibali, niente giovani, niente "disertori" (era l’etichetta che un’antologia apparsa nel 2000 poneva sull’esperienza di alcuni scrittori del Sud). E questa volta, forse, la spiegazione può essere un po’ più ragionevole, dato che i raggruppamenti obbediscono, di solito, a labili criteri di opportunità. Quello che resta, in definitiva, è sempre e soltanto l’assunzione di responsabilità individuale. I disertori si dileguano, ma un libro come La città distratta di Antonio Pascale (2001) rimane, e ci aiuta a indagare il microcosmo italianissimo di Caserta. E anche questo, sia chiaro, è soltanto un esempio.
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