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Intervista a Tullio Avoledo
Marco Mocchi, Intercom.publinet.it, 31.07.2003
Intercom.publinet.it
Tullio Avoledo, friulano, classe 1957, sposato con due figli e impiegato nell’ufficio legale di una banca, è l’autore di “L’elenco telefonico di Atlantide”, che trovate recensito in altra sede nel sito di IntercoM, suo romanzo d’esordio con cui l’Editore Sironi ha inaugurato, nel gennaio 2003, la collana “Questo e altri mondi”, a cura di Giulio Mozzi.
Giulio Rovedo, friulano, sposato con un figlio, impiegato nell’ufficio legale di una piccola banca di provincia, è il protagonista delle vicende del romanzo “L’elenco telefonico di Atlantide”.
Uno strano senso di déjà vu? Beh, sicuramente l’assonanza tra i nomi, la somiglianza macroscopica di certe situazioni tra le vite dell’autore e del protagonista del romanzo sono un indizio sul fatto che ad Avoledo piaccia in qualche modo giocare e giocare con il lettore.
Leggendo il romanzo questo indizio diventa un sospetto (a partire dai capoversi dei primi capitoli: un gioco/sfida col lettore; indovina il titolo distorto: ex. “Avventura nella stagione dei monsoni: Indiana Jones e il tempo maledetto”) ed il sospetto assume consistenza reale di “godimento” man mano che la vicenda si dipana, con continue divagazioni, citazioni e richiami in una vicenda che gronda effervescenza da tutti i pori…

La lettura del romanzo, nell’intreccio del complesso narrativo, è una sorpresa continua per il lettore, che si trova ripetutamente stuzzicato da richiami, paralleli, citazioni di romanzi, riferimenti musicali o cinematografici. Quali sono stati i riferimenti culturali su cui si è sviluppato il romanzo?
Spero di non scandalizzare nessuno citando due fumettisti: il francese Gérard Lauzier e l’americano G.B. Trudeau, autore della quasi trentennale saga di “Doonesbury”, in cui i personaggi e le storie s’intrecciano, sovrapponendosi anche alla vita reale: per cui in questo monumentale e al tempo stesso vivacissimo sceneggiato a fumetti entrano ed escono presidenti, cantanti, attori, guerre e scandali, interagendo con i personaggi inventati dall’autore. Non avrei potuto scrivere “Mare di Bering” (N.d.I.: terzo romanzo previsto per la collana “Questo e altri mondi”) senza aver letto e metabolizzato “Doonesbury”, mentre “Atlantide” è sicuramente tributario della satira sociale di Lauzier.
Questa è una scelta stilistica? Come la motivi?
Non amo le descrizioni tipiche dei romanzieri “classici”. In altre parole non sopporto le descrizioni eccessive dei personaggi o degli scenari, il dettaglio psicologico, e in generale tutto quello che appesantisce la narrazione. La pretesa del narratore di “descrivere con precisione” non può essere che velleitaria, se si considera la complessità del mondo attuale, in continua evoluzione e in uno stato di perenne disordine. Il romanzo ottocentesco descriveva elementi relativamente fermi, ed era quindi altrettanto relativamente in grado di “descrivere”, mentre l’occhio del narratore contemporaneo secondo me può cogliere solo guizzi obliqui, istantanee mosse, della realtà. O di quello che passa per “realtà”, dato che non sono neppure sicuro che questo concetto abbia molto senso, applicato alla vita che facciamo, e che è fatta più di stimoli indotti dalla volontà e dalla capacità di manipolazione altrui che dalla vita “materiale”. In altre parole credo che stiamo diventando sempre più creature virtuali. Il protagonista del mio libro è un esempio di questo processo in atto. Quello che crede di sapere, quello che crede di vedere gli arriva in realtà da altrove. E’ un individuo mutilato, di cui la società è – paradossalmente - un’ipertrofica protesi. Per questo nel romanzo ci sono più musica e cinema che letteratura: perché è così anche nella vita reale. Tutti ascoltiamo musica, tutti andiamo al cinema o vediamo la televisione, ma non tutti leggiamo libri. I libri contribuiscono in percentuale minima a formare l’immaginario collettivo. Se in un libro dico che un personaggio porta un cappello all’Indiana Jones quasi tutti i lettori visualizzano quel cappello. Se io scrivo che il personaggio si pettina come il grande Gatsby o come il giovane Holden, tu cosa vedi? Poi c’è un’altra cosa da dire: sotto il profilo degli apporti stilistici, un’opera musicale come “The Sinking of the Titanic” di Gavin Bryars o il film “American Beauty” di Sam Mendes (che ho espressamente citato nel “movimento di macchina” iniziale del libro, cioè nella carrellata esterna sul condominio) hanno pesato molto di più sul mio modo di scrivere che non l’opera di altri scrittori. Invece il mio terzo romanzo, ancora fieramente in fieri, risente parecchio dell’influsso della poesia di Tony Harrison e Seamus Heaney e dell’ascolto intensivo di un cantautore – se possiamo chiamarlo così – inglese, Billy Bragg: un reperto storico dell’epoca tramontata dell’Impegno Politico.
Come ti poni nei confronti della narrativa “di genere”?
Non riesco a vedere i confini della letteratura, le linee di frattura o di convergenza che dovrebbero determinare i generi e la collocazione di un’opera all’interno di essi. Forse perché gli autori e le opere che preferisco sfuggono alle catalogazioni troppo facili. Dove inserire Vonnegut, ad esempio? E Palahniuk? E Foster Wallace?
E nei confronti della fantascienza?
Ah! La fantascienza è stato il mio amore di gioventù. Non il primo, ma quello che sicuramente mi ha più segnato. Forse perché mi ha colto nel momento più delicato del mio processo di formazione. A Padova nel 1977 c’era il Movimento, c’erano gli ormoni a mille, e poi c’era la corsa in edicola a comprare il nuovo numero di ROBOT. Le tre cose coesistevano bene insieme, formavano un cocktail straordinario. La fantascienza per me ha il sapore della gioventù.
Fatte queste premesse: una tua definizione di “fantascienza”?
Dovrò citare ancora una volta Kurt Vonnegut, che ha scritto che gli dispiace che i suoi libri vengano infilati dalla critica nel cassetto della fantascienza, perché i critici spesso scambiano quel cassetto per un orinale. In realtà molti che non conoscono il genere vedono la fantascienza come una cosa da ragazzini, o da ignoranti. Forse era così in America negli anni ´50 o ´60. Attualmente credo che i lettori di fantascienza siano distribuiti più sulle fasce alte d’età che fra i giovani, che sono abituati a "ingerire" fantascienza attraverso altri canali (film, videoclip, fumetti, pubblicità) piuttosto che attraverso la lettura. Come ho detto, non è facile fare delle distinzioni nette, in ambito letterario. Io divido i libri in due sole categorie: i libri che non mi piacciono e quelli che mi piacciono. E´ un criterio pratico, che suggerisco a tutti di usare. Detto questo, all’interno della fantascienza si trovano mediamente più libri che non mi piacciono (non voglio dire che siano necessariamente brutti: solo che non mi piacciono) che non nella letteratura "mainstream". Ma questo credo dipenda da fattori pratici: un tempo gli autori di SF erano così mal pagati che dovevano per forza anteporre la quantità alla qualità; i lettori poi erano effettivamente più giovani, meno colti. Inoltre alcuni grandi scrittori di SF puntavano più sulle idee che sulla scrittura. Comunque si è creata nel tempo una forma di pregiudizio nei confronti della letteratura fantastica. La situazione sta cambiando, e cambierà ancora, perché molti dotati scrittori "mainstream" trovano nuova linfa ispiratrice nella fantascienza. Penso a Jack Womack, uno scrittore che mi ha molto impressionato, a David Foster Wallace, o a Colson Whitehead, solo per fare qualche nome. Non è la vecchia "space opera", ovviamente, e non si trattano temi come la robotica o la conquista dello spazio, ma certamente non vedo nette linee di frattura con la cosiddetta "fantascienza sociologica" del passato. Può sembrare che io stia cercando di eludere la tua domanda, ma il fatto è che trovo molto difficile dare una definizione di fantascienza. Una volta si usava la definizione di "narrativa d’anticipazione". Ma lo steampunk, ad esempio, non si può certo far rientrare in questa categoria. E neppure le storie che hanno a che fare con gli universi paralleli, o con i viaggi nel tempo. Potrei dire, sperando di cavarmela a buon mercato, che la fantascienza è il regno del SE. O l’equivalente letterario di un volo in condizioni di gravità zero. O l’unica categoria narrativa in cui un marziano si senta a suo agio.
Quali sono gli autori e le opere fantascientifiche più importanti per la formazione del tuo immaginario di scrittore?
Come autori metto decisamente al primo posto Philip K. Dick. Al secondo Gene Wolfe. Terzo Norman Spinrad. Poi un folto gruppo di testa: John Brunner, Keith Roberts, Cordwainer Smith, Edgar Pangborn, Roger Zelazny, Philip J. Farmer, Greg Bear, Robert J. Sawyer, Michael Bishop, Christopher Hinz (l’autore della “Trilogia dei Paratwa”), Larry Niven, Poul Anderson, Terry Bisson. David Gemmell, per la fantasy. Ho amato molto anche alcuni libri di Harry Turtledove, un autore che però di opera in opera diventa sempre più illeggibile. Poi mi piacerebbe, un giorno, essere così ricco da poter ricavare un film da “Soldato non chiedere” di Gordon Dickson.
“L’elenco telefonico di Atlantide” è un’avventura molto particolare, perché fonde una serie di suggestioni in un'unica vicenda dalle molte sfaccettature. A tratti pare di trovarsi in una vicenda di Indiana Jones, in altri nei panni di Martin Mystere, in altri in un romanzo di Dick, in altri ancora in un film dei fratelli Wachowski. Ma una delle “tensioni motrici” del romanzo è la battaglia tra il Bene ed il Male (il ruolo della Covenant per Rovedo è a tratti quello della “Spectre” per James Bond). Ritieni quella tra Bene e Male una distinzione netta?
No, purtroppo. O dovrei dire per fortuna? Nella Wehrmacht di Hitler c’erano molte persone buone, così come in quello che Reagan definì “L’Impero del Male” c’erano (come ha felicemente intuito Mr. Sting...) molte persone che amavano i loro bambini. Nel mio libro è rispecchiata proprio questa ambivalenza, l’impossibilità di tracciare chiari confini morali. Alcuni personaggi apparentemente “cattivi” si rivelano “buoni”, i nemici diventano amici e viceversa. Al tempo stesso sono certo che il Male esiste. Non sono altrettanto sicuro che esista il Bene. Trovarlo – nella storia, così come nella vita, è così difficile. Per trovare il Male, invece, dovete solo leggere un libriccino edito da Giuntina, “La notte” di Elie Wiesel. E’ un libro autobiografico. Parla di un bambino ad Auschwitz. Dovrebbe essere adottato come lettura obbligatoria per i nostri figli. Così come li vacciniamo contro le malattie dovremmo vaccinarli anche contro l’odio e il razzismo, per dire solo due aspetti del Male. Credo che la lettura di quel libro li vaccinerebbe. Io l’ho letto tardi. Comunque uno dei motivi per cui non credo esista una lotta tra il Bene e il Male è che non ricordo nessuna vittoria del Bene, ultimamente. Il che vorrebbe dire che forse la guerra c’è stata ma è già finita. Non è una cosa che mi faccia molto piacere pensare. Comunque nel mio romanzo la descrizione della lotta tra il Bene e il Male e tutto l’altro “arredamento mitico-spirituale” vengono cortesemente forniti da un personaggio che alla fine si rivela un grande bugiardo. Trai tu le conseguenze...
Nel romanzo c’è un esplicito vacillare tra presente e passato (le vicende di ordinaria quotidianità sono continuamente intaccate da improbabili segni di divinità egizie che ritornano, o di inquietanti reminescenze di nazismo). In che modo il passato si proietta nel nostro presente?
Una delle paranoie di Philip Dick nel momento del suo declino fisico e psichico consisteva nel ritenere che il mondo in cui crediamo di vivere fosse solo un illusione. Noi in realtà vivremmo ancora ai tempi dell’Impero Romano; il cristianesimo sarebbe ancora perseguitato. La società tecnologica e tutto il resto non costituirebbe che un’illusione imposta dall’esterno. Ricorda qualcosa, vero? Comunque, a parte le visioni e le paranoie di Dick, il passato ci domina di fatto. Nei nostri geni, per esempio. Nel genoma dei miei antenati è codificato il momento in cui il mio cuore cesserà di battere. La città in cui vivo viene dal passato. La lingua che uso viene dal passato. Il passato proietta anche ombre più lunghe e sinistre. C’è un film geniale di Paul Verhoeven, “Starship Troopers”, in cui la Terra unita del futuro è permeata da un’estetica nazista. Affascinante. Terribile. Poi in questo momento sto leggendo un libro sulle guerre jugoslave dell’ultimo decennio. Sulle sue pagine mi sono reso conto di come la storia possa pesare sul destino di un popolo o di una nazione. E quindi degli individui che la compongono. Vecchi odii colpiscono e uccidono a distanza anche di molte generazioni.
Qual è la tua visione di futuro?
A volte temo che, come scrisse Jack London, il futuro sia “uno stivale che calpesta un volto umano, all’infinito”. La mia visione è, insomma, quella di Orwell. Nel nostro mondo l’autorità viene sempre più spesso sostituita dal Dominio. Parole come “democrazia”, “governo del popolo” e tutta l’altra attrezzatura lessicale delle democrazie parlamentari vecchio stile sono ormai delle attrezzature sceniche in disuso. Siamo governati da quelle che chiamo oligarchie frattali: oligarchie governative centrali, oligarchie regionali, locali, condominiali: dal grande al piccolo sono tutte incarnazioni dello stesso modello di governo. Sono strutture profondamente antidemocratiche, al di là delle apparenze formali. Strutture che sfruttano a loro favore il disordine delle società moderne, che lucrano sull’incertezza e sul disinteresse della gente per il sociale. Che usano la paura di cui sono in gran parte responsabili – se non gli stessi artefici – per imporre restrizioni alla libertà dell’individuo. Il Caos è funzionale al loro Ordine. E’ un modello transnazionale, valido in Italia come negli USA come nella nuova Russia. O in Cina. E’ un Nuovo Ordine Mondiale strisciante.
Come ti poni di fronte alla Storia?
In una posizione di grande soggezione e timore. Provo un grande rispetto per chi ci ha preceduto, anche perché sono certo che qualsiasi cazzata o orrore sia stato perpetrato in passato noi saremo in grado di fare di peggio, ora o in futuro. La storia per me è anche una grande fonte di ispirazione per la lettura del presente. Ad esempio quando qualche settimana fa si era aperto un dibattito sulla neutralità io sono andato a rileggermi Tucidide - il confronto fra i Meli e gli Ateniesi - e “Le Troiane” di Euripide. Studiare il passato può aiutare a capire il futuro, così come leggere un libro di medicina può aiutare un malato terminale a capire di cosa sta morendo. Comunque non lo farà guarire.
Nel romanzo Rovedo si trova immerso in una serie di fatti che non riesce a controllare e la cui lettura viene ribaltata più volte nel finale. L’impressione è quella del “complotto cosmico”. Cosa ci puoi dire in merito?
Ah, ma il complotto cosmico esiste davvero! Pensa solo al fatto che respiriamo una miscela di gas corrosivi. L’ossigeno è un potente ossidante, no? Un riducente, non so come si dica esattamente, ero un disastro in chimica. Comunque ci siamo sviluppati respirando una miscela corrosiva. Viviamo su uno strato sottile di terra sopra un nucleo incandescente. Poi pensa a come siamo fatti, noi umani. Siamo una forma di vita destinata sin dall’origine al fallimento. Pensa a quando eravamo scimmie indifese, senza artigli né altri strumenti di difesa, degli stuzzichini per ogni carnivoro desideroso di cibo senza troppa fatica. Forse è proprio questo il segreto del nostro successo. Il fatto di aver dovuto camminare sempre in salita. Ma ti sembra che sia stato un affare? Okay, poi ci siamo presi le nostre soddisfazioni: abbiamo praticamente sterminato tutti i grandi predatori, e anche delle bestie che non davano nessun fastidio. Abbiamo distrutto l’ambiente, punendolo per la sua ostilità passata. Un bel caso di successo. Comunque, a parte gli scherzi, a volte sono certo che sì, che c’è un complotto cosmico in atto.
Per la teoria del complotto nel romanzo, hai avuto qualche fonte di ispirazione particolare?
Essenzialmente le dottrine gnostiche. Se uno non può proprio fare a meno della religione, l’idea di un universo imperfetto perché creato da una divinità di rango inferiore ha il suo fascino.
Hai pronti nel cassetto altri due romanzi, ci puoi accennare qualcosa?
Sui due romanzi non posso dire altro se non che saranno due storie molto tese, avvincenti, che faranno ridere e piangere. Chi ha amato “Atlantide” amerà decisamente anche “Mare di Bering” e “Lo stato dell’unione”, due libri che potranno però incontrare il gusto anche di altri lettori, non interessati alla fantascienza o all’esoterico. Non ci sarà Giulio Rovedo, ma un paio di protagonisti che mi stanno altrettanto a cuore, e che spero anche il pubblico amerà.
Come vedi “Tullio Avoledo scrittore”? In altre parole, quali sono le tue ambizioni letterarie?
Quanto a “Tullio Avoledo scrittore”, un’entità del genere semplicemente non esiste. Diciamo che Tullio Avoledo ha scritto dei romanzi. Non mi sento Autore con la A maiuscola, e non mi interessa diventarlo. Del resto il tempo che dedico alla scrittura è una minima parte della mia vita. Per ora. Per finire, le mie ambizioni letterarie sono di riuscire a pubblicare tutto quello che mi divertirò a scrivere, e di smettere di scrivere quando non mi divertirò più a farlo.
Quanto divertimento e quanta ricerca letteraria ci sono ne “L’elenco”? E nei prossimi romanzi?
Ricerca letteraria: zero. Documentazione: quanto basta. Divertimento tanto. Idem per i prossimi romanzi.
Il finale ribalta completamente la chiave di lettura dell’intero romanzo. Cos’è per te la realtà?
Una pura convenzione. Un modo di vedere le cose. Un concetto che usiamo per non impazzire. Qualcosa che col tempo diventa indistinguibile da un sogno.
In una frase: come definiresti “L’elenco telefonico di Atlantide”?
Un film fatto con le parole.

Tullio, ti ringraziamo molto per la tua disponibilità e ci auguriamo di reincontrarci presto…
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