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Dopoguerra nel Polesine, fra vendette, nebbia e afa |
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Bruno Quaranta, La Stampa, 25.05.2002 |
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La guerra civile continua in
Polesine. Fascisti e partigiani,
rancori e odi vividissimi,
il grande fiume che custodisce
segreti tremendi, l’ora della
rivoluzione nell’aria, private santabarbare
gelosamente custodite, funerali
con la banda, e le bandiere...
E’ il clima che Guido Barbujani,
al secolo genetista, restaura in Dopoguerra (ma gli gioverebbe una
lingua più "sporca", più fenogliana),
fra i titoli che inaugurano la
collana indicativo presente a cura
di Giulio Mozzi, destinata a
raccontare "l’Italia com’è", l’Italia
che è quale noi la rappresentiamo,
mescolando storie e leggende, paura
e libertà, superstizione
e ragione, mito e
routine.
Così remoto, quel
mondo, eppure così in
agguato, insidioso. Forse
perché - come sa il
Meneghello dell’epigrafe,
un narratore di là - "l’andamento della nostra vita -
la mia e quella del mio gruppo d’età
- si è deciso lì, in quei mesi. Se
avevamo in noi altri semi, è stato lì
che sono morti".
In quel tempo, il dopoguerra.
Dopoguerra, il titolo omnibus scelto
non a caso da Barbujani. Perché il
suo romanzo ha l’ambizione di captare
un’Italia vasta, ancora sotto
l’usbergo della guerra, quindi in
armi, quindi in attesa di una mistica
palingenesi a colpi di grilletto, e
insieme in disarmo, a poco a poco
oliata e minata dal boom fragorosamente
in arrivo.
Adria, delta del Po, 1957. Martino,
ex capo partigiano, piccolo industriale,
finisce con il suo camion in
un canale. Un incidente? Una vendetta?
("Molti pensavano che Martino
era una testa calda, che c’entrava
con certe storie di fascisti spariti
subito dopo la guerra"). Indagano (e
depistano) i carabinieri. Indaga, soprattutto,
Werther, il discepolo di
Martino durante la Liberazione,
ora, con Martino, al timone della
fabbrichetta destinata a dilatarsi o ad affondare ("...se non
ci si inventa ogni anno
qualcosa non si vende
niente").
Ma è morto Martino?
Il corpo è sparito...
Dove si è arenato? Dov’è
trasmigrato? Werther,
a poco a poco,conquisterà la risposta, vagando
fra le ombre del passato (un passato
in decomposizione: Barbujani "sa"
come porgerne il fetore) e un presente
argilloso, friabile, disorientato.
In particolare, Werther, ricercando
l’amico scomparso rivive la tragedia
familiare - il padre e lo zio
assassinati dalle camicie nere -, non
sopita dalla vendetta consumata
nel 1947 (l’esecuzione del torturatore
è letterariamente esemplare:
"...gli spari li ho sentiti... e ho
sentito un suono disgustoso, come
se qualcuno avesse preso un maiale
dalle orecchie e l’avesse sbattuto
sul cemento, è stato come se si
spaccasse un’enorme vescica piena
di liquami...").
La guerra civile e oltre. Non è
solo la guerra civile a modellare
vicende e caratteri nella pianura di
Barbujani. Anzi. Il vero artefice, o
demiurgo, non è tanto questo o quel
copione vergato e interpretato ad
ora incerta dagli uomini, bensì il
paesaggio stesso. I torti, le ingiustizie,
il sangue passano, si confondono,
si raggrumano. La nebbia e
l’afa, no. Ciclicamente tornano, avviluppano,
sconvolgono (talvolta redimono?)
il cervello, il cuore, le
viscere. |
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