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Eudaimonia postmoderna
Claudia Bonadonna e Maria Agostinelli, Rai Libro, 07.07.2003
Rai Libro
La felicità come resistenza. Intervista a Davide Bregola.
Cos'è la felicità se non un po’ di bene (eu) permesso dalla divinità (daemon)? La felicità è quella che non ti aspetti, sparsa negli interstizi della quotidianità. Sono i bollini in più regalati dal benzinaio che ormai conosci. Anche se di lì a poco quel distributore chiuderà per sempre e il girocollo di perle naturali che volevi regalare alla mamma non arriverà mai al termine della raccolta punti. E’ il tormentone estivo, idiota e persistente di vaporosa allegria, da cincischiare nella macchina rovente mentre vai incontro all’amica “da andare a trovare giusto per far bene all’amore”. E’ l’amore che ora viene e ora no. E’ il film che non hai visto. Il gruppo dell’amico che non sarà mai famoso, e forse nemmeno bravo. La notte stellata, splendida malgrado gli scherzi beceri dei compagni.
Nella bassa mantovana del “giovane scrittore” Davide Bregola – trent’anni, di Sermide, una raccolta d’esordio, Racconti felici (Sironi 2003, pp.200, euro 12,50) e il premio Tondelli per la narrativa vinto nel 1999 - la vita scivola via tranquilla e vera. Vera di quella verità triste e ridicola che è la nostra coscienza provinciale, l’essenza sguaiata e inconsapevole dello strapaese. Eppure i suoi protagonisti - giovani sonici e tecnovillani, come lui stesso li definisce - nuotano nel magma senza sporcarsi, stupiti di fronte ai piccoli incantesimi dell’esistenza e ancora in grado di provare desideri. Una sorta di giocosa resistenza passiva di fronte alle necessità del crescere che attaccano inesorabili la dorata inapplicazione dell’adolescenza, di bizzarra consapevolezza contro la vita adulta che incombe minacciosa. Bregola asseconda con affetto questo sguardo ingenuo eppure già smaliziato, questa pertinacia quasi ribellistica nel ricercare il bello e il buono.
Scrittura piccola piccola, la sua, ma non minimalista. Per l’ampiezza dell’orizzonte che sottende, per lo slancio interiore che la anima. Poetica, in fondo. E ironica e buffa, nel mischiare dialetto e computer. Tenera. Vulnerabile. Ne abbiamo parlato con l’autore.

D. Un po’ di storia, prima. Ti sei laureato in giurisprudenza, perché poi hai deciso di scrivere?

R. Il problema era che la narrativa e la saggistica letteraria mi distraevano dai codici. A un certo punto, visto che la letteratura aveva il predominio sul Trabucchi e sui manuali di giurisprudenza, mi ci sono buttato a capofitto, assecondando, come dicono tutti, il mio reale bisogno di scrivere. Ho iniziato con dei racconti, una sorta di “officina” da cui prendere le mosse per scrivere qualcosa di maggiormente consapevole…

D. Racconti che poi sono stati inseriti nella raccolta Coda, ultima parte del progetto Under 25 di Pier Vittorio Tondelli. Qual è il tuo rapporto con lo scrittore correggese?

R. Ho letto i suoi libri, sia quelli di saggistica che di narrativa. Dopo la sua morte, il progetto Under 25 è proseguito sotto la guida di Silvia Ballestra e di Giulio Mozzi, e io ho esordito appunto con tre racconti pubblicati nell’antologia a loro cura. Mozzi e la Ballestra hanno conosciuto Tondelli, sapevano come lavorava, e hanno tentato di portare l’atmosfera e la sua attitudine al lavoro sui nuovi narratori. Abbiamo fatto un vero e proprio laboratorio di scrittura, confrontandoci sugli autori e sui testi. È stato molto formativo.

D. In un mondo (anche letterario) che predilige lo spleen e il pessimismo, tu hai scelto di definire “felici” i tuoi racconti. Perché? E cosa c’è dietro il tuo concetto di felicità?

R. La mia sensazione è che c'è spazio per parlare di felicità nella narrativa italiana contemporanea, e visto che il tema non è inflazionato mi ci sono buttato a capofitto. I miei personaggi, infatti, assumono in loro la felicità come principio e fondamento della vita morale e nella quotidianità.
Cercano di progettare la felicità, che non è gioia. La gioia è un momento, uno sprazzo che può giungere, paradossalmente, persino in un periodo luttuoso (la vista di un cucciolo, gli occhi di un neonato...danno un attimo di gioia). La felicità è un percorso che ci si propone di raggiungere. Nel momento della stesura dei Racconti felici ero appassionato dell'Eudemonismo, che Kant faceva coincidere con l'egoismo morale. Nulla di più falso (e qui azzardo un pensiero contro l'errore kantiano, nientemeno!) perché in alcuni miei racconti la felicità ha un significato sociale, quindi non coincide con l'ego. Penso in particolare a racconti in cui l'associazionismo, il gruppo, cercano di raggiungere uno scopo e la loro felicità coincide con il suo avverarsi. Quindi i personaggi che ho cercato di narrare, in generale sono in uno stato di soddisfazione dovuto alla loro attitudine nei confronti del mondo. Sono consapevoli del male, quindi non sono "macchiette" decerebrate, ma cercano in qualche modo di percorrere altre strade: i filosofi greci dicevano che "è felice colui che ha un corpo sano, buona fortuna, e un'anima ben educata". Queste tre caratteristiche sono presenti nella costruzione delle storie narrate nel libro. Ma c'è sempre anche dell'altro!

D. Mistica della provincia. Nei tuoi racconti sembri prediligere la dimensione "piccola e vera" del paese o comunque della non-metropoli. Perché?

R. La periferia, come la felicità, sono "luoghi" frequentati pochissimo. I media ne parlano poco, e solo quando i temi da trattare sono scabrosi, drammatici. Narrare della provincia è come parlare del mondo intero, non c'è alcuna differenza. Tolstoj diceva: "Narra della tua comunità e avrai parlato del mondo intero." In più, nel microcosmo si notano cambiamenti sociali e antropologici che poi avverranno su larga scala. Un esempio? In provincia molte aziende hanno iniziato a chiudere negli anni '80, e il cambiamento sociale ha significato il trasloco, la disoccupazione... Antropologicamente direi che il “tecnovillano” da me descritto è un ossimoro che in una metropoli non sarei mai stato capace di scorgere. Ancora: i partiti politici progettano le loro strategie nei piccoli centri per poi utilizzarli su larga scala. Nei primi anni '90 l'Ulivo, tanto per fare un es. era già una realtà, qui da noi. E a livello nazionale nemmeno se ne parlava. Visto che qui in provincia ha funzionato... l'hanno riproposto. Il melting pot e la transculturalità a saperli guardare bene qui sono un dato di fatto perché nelle campagne si richiede manodopera e intere famiglie mediorientali si sono insediate in provincia. Indiani allevano il bestiame, nei mercati ci sono bancarelle di orientali che vendono stoffe, vestiti, pellame. Amici miei da anni registrano i film di Bollywood dal satellite e un po’ se li fanno tradurre dagli amici indiani... Non voglio dare una visione troppo idilliaca della provincia, anche qui ci sono i problemi, ma la particolarità di narrare storie che avvengono al confine tra diverse regioni, varie provincie, con tutto il retroterra culturale che vi sta sotto: Virgilio, Baldassar Castiglione, Ariosto, Tasso, Delfini, D'arzo, Zavattini, Loria, Bassani, Tondelli, non si può rimanere indifferenti. Il genius loci preme! E' un osservatorio privilegiato. Altro fatto importante, qui più che provincia o periferia è “rururbanizzazione”. Mi spiego: le zone rurali hanno cercato di urbanizzarsi nella seconda metà del ventesimo secolo. I contadini hanno abbandonato l'attività agricola oppure si sono destreggiati tra settore secondario e terziario, ma la campagna (industria primaria) non l'hanno mai lasciata andare del tutto. In quel periodo la ruralità ha cercato di urbanizzarsi. Non ce l'ha fatta del tutto e allora racconto anche di questo strano neologismo antroposociologico dei rururbanizzati. Cercando di evitare il folclore più grossolano e gretto. Bella impresa vero?

D. Autobiografia vs fiction. Quanto c'è di biografico nelle tue storie (rischio sempre in agguato per gli scrittori agli esordi) e quanto di narrazione pura, di gusto per lo storytelling?

R. Posso dire tranquillamente di aver fatto i conti con il biografismo in racconti non pubblicati. In Racconti felici c'è invenzione così come c'è suggestione presa dalla realtà. Nel racconto lungo La lenta sinfonia del male ho cercato la narrazione pura, l'invenzione. Pur rimanendo fedele ai luoghi che voglio narrare, in una Macondo immaginaria che ho creato sommando la mia idea di Italia. Nei racconti in cui si parla di stelle, pianeti, buchi neri, c'è ricerca astronomica. Mi sono documentato, come si suol dire, anche nelle parti in cui parlo della Seconda Guerra Mondiale.
Allo stesso tempo però ho fatto tesoro di storie che mi hanno raccontato, magari male, alcune persone. Ma uno scrittore deve saper narrare bene il materiale che gli arriva spurio o poco raffinato e deve proporlo nel miglior modo possibile. Una particolarità: i nomi dei personaggi dei racconti, i loro soprannomi, in molti casi sono i veri nomi dei miei amici d'infanzia, di gioventù e dell'età adulta. Naturalmente i miei amici veri non fanno le cose narrate nei racconti, ma li ho "usati" per tributarli, è un segno d'affetto che qualcuno non ha capito e che mi rinfaccia la macchina nuova o si sente chiamato in causa o messo alla mercé. Pensano abbia acquistato la macchina coi diritti del libro! Questa cosa è divertente e allo stesso tempo amareggiante.
E non c'è volta che entri al bar e non debba pagare una birra...ma questo è un piacere a cui non mi sottraggo. Col primo racconto del libro intilotato Agip, c'è sempre gente ad ogni incontro che mi chiede se in quel racconto ho descritto il distributore del tal paese, nella tal via o nel tal quartiere. E' capitato a Ferrara, come a Verbania. Invece ho narrato, inventando, il disfacimento come metafora. L'unico tributo in Agip è per il fotografo Luigi Ghirri.
Mi sono accorto che molti lettori cercano, nei libri, attinenza con la loro realtà, oppure cercano di individuare dove lo scrittore ha raccontato i fatti suoi, i lati oscuri della sua anima. Una lettrice pensava che la protagonista di un mio racconto molto "nouvelle vague" fosse lei perché i loro nomi erano gli stessi. E' andata in giro per settimane a dire che in quel racconto c'era lei. In quel caso ho capito la vera essenza del film Il meraviglioso mondo di Amelie, dove la protagonista andava in giro e faceva accadere artificialmente cose per dar gioia agli altri. Nel mio caso ho dato un po’ di beatitudine alla lettrice che alla resa dei conti ho dovuto deludere... Quando in un libro si riesce a dare la propria visione del Mondo e allo stesso tempo i lettori entrano nella logica di ciò che si narra, al punto tale da riconoscersi soggettivamente in ciò che hanno letto, vuol dire essere riusciti nel proprio intento e allo stesso tempo significa che lo scrittore, come tutti del resto, ha una responsabilità grande, parola per parola, nelle cose che cerca di raccontare. Ecco allora che dall'estetica dell'arte di scrivere si dev'essere consapevoli che c'è pure un'etica, una condotta dello scrivere. Naturalmente entrambe sono arbitrarie. Giudici del loro valore saranno i lettori e il tempo… Chi pubblica un libro può anche fare biografia, non c'è alcun problema se riesce a dare il meglio di sé nelle cose che gli accadono. L'autobiografismo è un genere che ha donato grande letteratura. Io ho puntato sulla fiction per tenere in serbo le storie che mi riguardano o riguardano le persone a me vicine nei momenti in cui l'immaginazione vuol lasciare il posto all'esperienza.

D. Citavi Tondelli, Delfini, Zavattini… e fuori dall’Italia?

R. Robert Walser e Peter Handke. Sono autori che “parlano”: basta riuscire ad ascoltarli per apprendere molto…

D. Racconti felici raccoglie le tue primissime prove fino a quelle più recenti. Come pensi si stia evolvendo la tua scrittura?

R. Sta diventano sempre più consapevole. Penso che il passo successivo sarà dalla novella al romanzo. La novella è sempre stata una forma caratteristica della letteratura italiana insieme alla poesia. Il romanzo un po’ meno... Nel mio lavoro ho voluto affrontare i diversi spazi letterari, poetici e narrativi per rispettare questa tradizione che ho alle spalle...

D. Prossimi progetti, dunque?

R. Il primo consiste in una raccolta di interviste a poeti stranieri che scrivono in italiano (in una prima raccolta pubblicata da Edizioni Interculturali nel 2003 e intitolata Da qui verso casa, Bregola si è occupato di narratori stranieri che scrivono in italiano, ndr). La cosa è già in cantiere, li ho contattati tutti, si tratta solo di trovare il tempo per incontrarsi e parlare. Per il resto attendo: so che bisogna scrivere sempre e che non è necessario pubblicare per forza. Continuo a fare le mie cose, ad esercitarmi... come ogni scrittore...

D. Senza l’ansia della pubblicazione, però…

R. Infatti. Capisco la smania di vedere il proprio libro in libreria, col nome in bella vista sulla copertina, ma a volte, a inseguire certe urgenze, si rischia di perdere di vista se stessi. Per me, nel momento in cui si dà alle stampe un romanzo, è importante essere sicuri di aver dato il meglio delle proprie possibilità. Bisogna seguire il ritmo naturale della propria persona per avere l’umiltà di pubblicare. E veramente si tratta di umiltà. E’ un mutuo scambio coi lettori: qualcosa che hai scritto contro il loro tempo. E questa - a costo di passare per buonista – ha a che fare col concetto di responsabilità. Dunque meglio ci si presenta, migliore sarà il servizio nei confronti del lettore.
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L'universo accidentale
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R.E.A. MI 2017255
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